Un viaggio attraverso tutte le sfumature della discografia della band di Montepulciano.
Ho conosciuto i Baustelle all’angolo di una strada, in un pomeriggio di primi appuntamenti. Ricordo con un’esattezza nitida il momento in cui, insieme a una copia di “Pollution” di Battiato e a una di “Noi non ci saremo” dei CSI, mi arrivò tra le mani anche “Sussidiario illustrato della giovinezza”, disco d’esordio di questa band dal nome mai sentito uscito tre anni prima di quel pomeriggio. Era la primavera del 2003 e a più di 10 anni di distanza conto, da ascoltatrice e da addetta ai lavori, un indefinito numero di ricordi perfetti legati ai primi ascolti dei brani della band di Montepulciano, quasi tutti poi destinati a diventare singoli di successo. Tanto per citarne qualcuno: “Arriva lo ye-ye” (2004) ascoltato per la prima volta attraverso la cornetta di un telefono fisso, “Un romantico a Milano” (2005) sentita da dentro la doccia di un appartamento di Milano in assoluta e piratatissima anteprima, fino a “Nessuno”, incipit cantato dell’ultimo album “Fantasma” (2013) ascoltato a dieci anni di distanza nella casa discografica della band, guardando il cielo diventare buio su tutta la città e plasmando una nuova spettrale vista di Milano dall’enorme finestra di quel quattordicesimo piano.
Meri esempi personali utili a raccontare, forse, come la penna di Francesco Bianconi sia riuscita a tagliare un decennio in tante parti più piccole, ognuna delle quali solleva piccole montagne di ricordi dallo spazio lontano e vicino di cui è stato protagonista; una cosa che accade quando il pop riesce a spingersi in modo profondo nelle vene del tempo che è dato agli umani.
PARTE I – Passato
“Voglio il ciuffo di De André
e una fica come te.
Certi giorni penso che
voglio odiare (I want to hate)
copulare in hit parade
suicidarmi insieme a te.”
(Musichiere 999)
È una sorta di affezione erotica per il passato ad animare in modo netto la prima scrittura di Francesco Bianconi, quasi un viaggio materico nella storia della giovinezza e delle pulsioni emotive e fisiche di un giovane uomo – ma pure, in qualche modo, nella vicenda altrettanto emotiva e palpabile di una formazione culturale (quindi musicale, letteraria, artistica) che è fatta di un mondo retrò non ancora entrato nel senso comune e nelle traiettorie pop italiane. È il 2000, e il Sussidiario – come lo si chiama ormai abitualmente – fa il suo ingresso, grazie alla produzione di Amerigo Verardi e alla piccola etichetta Baracca & Burattini, nel nostro mercato discografico.
Un lavoro che intesse una trama di rimandi, che disegna riferimenti, accenna con pennellate dense e per fortuna mai gentili i tratti di un mondo perduto; una sorta di romanzo di formazione in musica egualmente diviso tra storie di colonie estive, canzoni da spiaggia, primi turbamenti voyeristici adolescenziali e prime masturbazioni, primi rossetti sbavati, cartoline che contengono addii che sembrano arrivederci e viceversa: giornaletti porno, Le ore, e fumetti erotici, “Sadik”. Un mondo di non detti, di trame felicemente incerte che si muovono su binari sonori tutti diversi come l’elettronica, le derive new wave, il rock, gli influssi cantautorali dal passato, la bossa: tutti ricondotti con una maestria che nulla condivide con l’arte dell’esordio, nella cornice di un pop perfetto e pressoché irripetuto che da “Le vacanze dell ’83”, “Gomma” e “La canzone del riformatorio” – i pezzi destinati a diventare grandi hit dell’album – sa spingersi fino agli spazi profondi delle b-sides del disco.
Di versi per te
di miei occhi tristi
e di questi dischi
quanti me ne restano ancora? (…)
L’amore mio s’arrotola
e non finisce più
(Reclame)
(foto di Gianluca Moro / gianlucamoro.it)
Il sussidiario si presenta oggi come la prova generale sporca e perfettamente abbozzata, lateralmente giovanilistica e tossica, di un auspicato ritorno del lento danzato a ventri stretti. Si chiama “La moda del lento” l’album che, in un’esplosione di synth e coi Pulp che sembrano sbirciare tutto da dietro l’angolo, mette a fuoco queste prospettive sul passato, su mondi che c’erano e all’improvviso si sgretolano, si arrotolano, non finiscono, mondi fatti di “Cin Cin” e di “Arrivederci”.
A esattamente dieci anni dalla sua uscita questo secondo album dei Baustelle si configura ancora come la sintesi perfetta di tutto ciò che andrebbe domandato tenacemente alla musica italiana contemporanea. Un erede perfetto, prezioso, sfuggente, di tutto il cantautorato classico e di una tradizione europea sintetica, emaciata, pulsante di erotismo, di giovinezza e di tremori che ti raggiungono per strada, contro i muri, sopra un sedile posteriore (se lo vuoi).
Una vena retrò di glam e di synth pop nella quale scorre una poetica misurata, mai pornografica, tanto nelle storie che racconta quanto nel modo impeccabile di raccontarle. Un mix scenografico fatto di correlativi oggettivi che oggi diremmo vintage: sigarette alla vaniglia, sigarette francesi di tutte le marche, sigarette arrotolate, sigarette tra le labbra di attrici uscite da film della Nouvelle Vague, schiene nude scortate da uomini che immaginiamo col viso di Jean Paul Belmondo, raffiche di scatti à la Blow up su seni da fermare su pellicola e portare via per sempre; e poi ancora slip da strapparsi a vicenda su un prato e smisurati toni elegiaci (“EN”).
Tutto un pastiche che diremmo postmoderno, in cui l’immagine della Venere di Milo incontra quella di una Jaguar e i personaggi indossano cardigan e bevono cognac in bicchieri di cristallo spesso.
Mai più nessuno dopo quei Baustelle è riuscito a definire così precisamente alcune suggestioni del passato che non smettono di respirare nel presente, alcune forme di nostalgia nascoste ben oltre i pattern sulle camicie e i pantaloni a zampa. Una nostalgia profonda, dell’anima, una nostalgia che l’eros, tutto affilato e umido dentro queste canzoni, prova a combattere con vitalità. Il corpo, la morte e la morte nella vita che scappa via dalla sua stagione giovane, calda e assolata, come si racconta in “Réclame”, che di quest’album è assoluta gemma, frammento perfetto, capolavoro ancora oggi di una carriera intera.
Ma c’è una luce
che cancella il buio:
e non è il fulmine
e non è il sole
e neanche il bene del Signore
sei tu: Amore.
(Cuore di tenebra)
Nel 2005 esce “La malavita” che apre a nuovi vagheggiamenti retrò: già nel titolo del disco (il primo del gruppo a uscire con la major Warner) si uniscono le fascinazioni per il mondo dei poliziotteschi à la Milano Calibro 9 e per l’universo esistenziale tracciato da libri come “La vita agra” di Luciano Bianciardi, toscano proprio come i Baustelle, emigrato a Milano che finisce col raccontarci del male di vivere inarrestabile di un provinciale che si affaccia alla grande città che tutto trita e sputa senza remore.
Il mondo provinciale è ancora un universo ricco di ispirazioni per Francesco Bianconi che, accanto a “Revolver,” “Cronaca nera”, “Un romantico a Milano” (singolo effettivamente pigliatutto) ci offre la storia commuovente di Sergio – lo ‘scemo’ del villaggio – e il ritratto decisivo della vita in provincia proprio ne “I provinciali”.
“La malavita” è il disco che volge a un primo netto cambiamento non solo nel mondo musicale dei Baustelle ma pure nella poetica dell’autore dei suoi testi. Da una parte i suoni che si fanno più ruvidi e grezzi ma che, tentando di mantenere la patina che guarda al passato, tendono a perdere la propria forza, a smarrire in molti momenti una certa preziosità, anche a causa di un prevalere netto delle chitarre che sembrano sostituirsi, più rumorose che accurate, ai sintetizzatori di Fabrizio Massara – qua alle prese con tutto l’apparato elettronico dell’album per l’ultima volta. La scrittura inizia a perdere la sua piccola peculiare violenza criptica, si smarriscono gli accenni, i bozzetti emotivi, le pennellate decise, a favore di descrizioni e di prosaicità che tutto esplicitano, pronte a elevare il proprio guizzo pop al cubo in modo tale da renderlo ritornello che sia pronto per il grande pubblico (e “La guerra è finita” lo era eccome).
Inizia qua, lieve, lo spostamento di prospettiva nel lavoro di Bianconi che riuscirà sempre (e di questo spesso ci si accorgerà tardi, dopo fiumi di critiche e asperità) a mettere a segno punti irripetibili, foss’anche in un’imprevedibile unica perla in grado di emergere e salire in cima a tutti i brani del disco, come venisse da un pianeta altro: “Cuore di tenebra”, in questo caso.
PARTE II – Il presente
Sarebbe splendido
amare veramente riuscire a farcela
e non pentirsi mai
non è impossibile
pensare un altro mondo
durante notti di paura e di dolore (…)
sarebbe comodo
andarsene per sempre
andarsene da qui
andarsene così.
(Andarsene così)
È con “Amen” che questa nuova direzione intrapresa dalla band si fa più concreta e si realizza appieno. Il disco è, insieme, il mix denso e strutturato di suoni electropop sempre più contemporanei (“Baudelaire”, “Andarsene così”), di un rock variegato, declinato tra fascinazioni western e afflati pop in stile Nancy Sinatra (“Spaghetti western”, “L’uomo del secolo”, “Antropophagus”, “Panico”) il tutto legato a un modus poetico che da lirico si fa sempre più narrativo, che adegua il proprio linguaggio a un nuovo modo di raccontare non sempre a fuoco, e che a tratti si perde nella furia di esplicitare sé stesso, nel non lasciare più dettagli persi nell’immaginazione dell’ascoltatore ma dipingendo il quadro sempre con maggiore cura. Se alcuni passaggi dell’album non convincono e anzi, quasi stupiscono per ingenuità (“L’uomo del secolo”, “L’aeroplano”), altri sono destinati a salire dal primo ascolto in cima alle classifiche dei migliori brani di cantautorato italiano del decennio: il walzerino “Alfredo” (ispirato alla vicenda di Alfredino Rampi che nel 1981 cadde in un pozzo a Vermicino) l’elegiaca “L” e “Dark room”.
La scrittura, i riferimenti, e il respiro smettono di essere così abbracciati al passato come avveniva nei lavori precedenti e in brani come “Charlie fa surf”, “Il liberismo ha i giorni contati”, “Antropophagus”, “Baudelaire”, la riflessione si apre sul presente, su alcune dinamiche sociali e umane del nostro tempo che vanno in qualche modo a sostituirsi alle nostalgie, alle fervide retromanie culturali, mettendo a fuoco ciò che già avveniva, ancora solo parzialmente, in alcuni episodi del disco precedente (“La guerra è finita”, “A vita bassa”).
Io nel frattempo me ne sono andato
se vuoi ti ho tradito
che effetto mi fa
la piscina di un agriturismo ha coperto le rane
L’ultima volta che ti ho salutato
poi sono scappato
nel cesso del bar
ed ho pianto sul tempo che fugge
e su ciò che rimane
(Le rane)
(una scena del film “Workers – Pronti a tutto”, di Lorenzo Vignolo)
Prende il titolo da un’opera grandiosa di Elémire Zolla il più controverso, diviso e frammentario tra i lavori della band di Montepulciano che a tutti gli effetti rappresenta un assoluto momento di passaggio da un primo tentativo autorale che diremmo impegnato, alla maturità di esso. Un disco che all’ascoltatore risulta complesso proprio per la ragione stessa di non volerlo essere, di ambire al racconto socio-culturale in termini critici cercando di utilizzare lo spazio quotidano, alcune situazioni e descrizioni del vivere comune.
I mistici è il disco del presente che si afferma, dell’accurata attenzione alle dinamiche che ci coinvolgono tutti, un disco che suona riuscito per metà, la sua metà più intima, introspettiva, che ragiona d’amore, di Io, del rapporto che l’eroe, una volta diventato adulto, deve riuscire a intrattenere con la violenza del passato che, con le quelle stesse pennellate di una volta ma con colori che hanno ombre ben più evidenti, ritorna a manifestarsi nel presente.
Così accade impietosamente ne “Le rane”, ma pure ne “Il sottoscritto”, che è al contempo dichiarazione d’amore e dichiarazione di poetic,a e così avviene pure in “Groupies”, struggente ritratto di molti ritratti a comporre un unico sentire. Dal personale all’universale, insomma, e poi a ritroso: è così che “Gli spietati” rimane, a distanza di alcuni anni, il manifesto di un modo riuscito di cosa significhi scrivere una canzone italiana nell’epoca di post modernismo e della non fiction, prendendo con sé tutta la riaffermata supremazia della canzone d’amore. Commuove, forse non subito, molto del materiale contenuto in quest’album. Perché versi come “scindiamo l’atomo se vuoi” fanno sorridere, lasciano aperte questioni e ritornano dopo anni a mescolarle e suggerire soluzioni, fermandosi per non lasciarti più.
C’è qualcosa che non torna ne “I mistici dell’occidente”, qualcosa che in “La bambolina” prende “Io la conoscevo bene” di Pietrangeli e tagliuzza la pellicola, la rende forse troppo urlata, qualcosa che non funziona proprio nella title track in cui la problematizzazione appare risolta con una fastidiosa leggerezza, una leggerezza che lascia fuori il pop e appesantisce l’album.
PARTE III – Il futuro
Tuttavia, è proprio dai ragionamenti sul nostro tempo, che ne I mistici sembrano talvolta farsi balbettanti e a tratti devastati dallo sforzo educativo persino un po’ fastidioso dell’autore, che pare iniziare la riflessione ben più riuscita e sicura di “Fantasma”, concept album come ne si facevano negli anni ’70 che proprio sul tempo ragiona: i mali del nostro tempo, il tempo che sfugge, il tempo sociale e il tempo del singolo, il tempo dell’amore e degli affetti, il tempo sulla terra e il tempo dilatato che non si conosce, quello di ogni forma di fede e del concetto smisurato e inafferrabile di eternità.
Un’analisi poetica del presente intimo e sociale priva di pietà conduce a struggenti ragionamenti e proiezioni sul futuro che della pietà per la condizione umana fanno la propria più appassionata ragione. La maturità dell’autore è qua la maturità dell’uomo, che riflette sull’ipotesi della catastrofe Maya ma pure fa pace col proprio passato, le malinconie e i dolori dell’età adulta che non sfuggono alla tenerezza e, insieme, al gusto di scoprire e abbracciare il futuro. Tra l’Endrigo di “Back Home Someday” e le cavalcate alla Scott Walker di “Cristina” – che è perfetto ragionamento in canzone, riflessione dal particolare al generale, deduzione intima e sociale – si sollevano i fantasmi di Fabrizio De André che riecheggia come fil rouge nel cantato di Bianconi, di Morricone per i capolavori anni ’70 di Dario Argento, ma pure di Mahler, Ligeti, Stravinskij. Salvo poche scivolate come “Conta l’inverni” e “Monumentale” – che ancora sembra soffrire dei difetti di approccio di “Amen” e de I mistici, “Fantasma” è un libro sinfonico schiacciante, emotivamente tagliente, degno di rimanere nel tempo l’esempio paradigmatico di cosa significhi scrivere grandi dischi nell’Italia sventrata del 2014.
Bisogna avere fede
esplorare ogni spazio siderale
abolire l’aldilà
così ti stringo forte,
grido amore
cerco il bene nell’orrore
e l’eterno nell’età.
(Radioattività)