Il più importante disco dell’anno è Antico

ELISABETTA CLAUDIO

Si intitola “Antico” e il suo autore, Alfio Antico, è un artigiano delle tammorre, tradizionali tamburi a cornice di origine campana. “Antico” è il disco di un cantautore che sfugge al cantautorato – solo tamburo e voce rigorosamente in dialetto – e c’è tutta la psichedelia della natura siciliana

Il più importante disco italiano del 2016 è già uscito e con buona probabilità non è quello a cui state pensando in questo momento. Alfio Antico è il nome del suo autore, e al momento resta per cultori, per appassionati musicofili che nei loro viaggi sonori si sono concessi il piacere di attraversare gli antri più colti della nostra musica popolare. Alfio Antico suona il tamburo a cornice e il suo nome si legge nei libretti dei dischi e delle opere teatrali, si ritrova in vecchie locandine di festival del folk, si scopre in compagnia di numeri uno della nostra canzone: dall’esperienza con i Musicanova a quella con Vinicio Capossela ne Il ballo di San Vito e con Carmen Consoli in Elettra, Antico ha infilato un numero non calcolabile di collaborazioni, incontri artistici e creazioni di portata gigantesca: sui palchi con Giorgio Albertazzi e con Roberto De Simone al Teatro Greco di Siracusa e poi con NCCP, Lucio Dalla, Fabrizio De André.

Prima di Antico, il suo album appena uscito, niente di tutto ciò aveva sottolineato in modo così nudo, primordiale e a fuoco la natura prima di quest’artista. Antico è un inventore e artigiano che, da decenni, crea a mano i propri tamburi a cornice, le tammorre, strumenti che potrebbero ricordare erroneamente tamburelli napoletani – che sono invece molto più piccoli e con i cembali di ottone e non in latta. Per Alfio «Il tamburo è la voce del mondo, il ritmo della nascita e della morte, della festa e del lavoro: attraverso l’unione di un setaccio per il grano e la pelle di un animale morto si celebra il miracolo della comunicazione tra il visibile e l’invisibile».

Alfio Antico, nato a Lentini, è stato un pastore fino a 18 anni e attraverso questo mestiere ha imparato a conoscere i venti, le stagioni, ogni tipo di pianta, il nome di ogni diverso filo d’erba, ha conosciuto il suono dei seicento campanacci del gregge che faceva pascolare. Ha incontrato fin da bambino le forme più segrete di un paganesimo tipicamente siciliano.

Si ritrova tutto in questo disco, che risponde alle domande su quale sia il vero suono della terra, quale la musica nata da quel suono e quanto all’uomo sia consentito incontrare, attraverso la musica, qualcosa di primordiale, atavico, violento. Antico è il disco di un cantautore che sfugge al cantautorato e incontra, in modo morbido, non programmatico, le pulsioni sonore della nuova psichedelia italiana, un amore ormai meno di nicchia di quello per la musica popolare, che l’Italia sotterranea sta nutrendo per i suoni che guardano all’occulto e nuovi modi di produrre.

L’idea della produzione è stata quella di ridurre all’osso le strutture armoniche per lasciare emergere completamente voce e tamburo. Il suono del tamburo è sempre profondo e mai uguale, perché il suono delle pelli è soggetto a variazioni termiche: «Anche il modo in cui viene ucciso l’animale influirà sul suono del suo tamburo», dice Alfio Antico. Antico produce la psichedelia della natura, quella dove la sostanza assunta è il mantra del rincorrersi delle stagioni e fa, insieme, La canzone della terra, quella vera, quella che Lucio Battisti invocava in uno dei suoi brani migliori, proprio attraverso le percussioni: che spaccano, muovono e scaldano la crosta terrestre.

ELISABETTA CLAUDIO

La canzone, in Antico, ricalca lo stilema della Scuola Siciliana, costruendosi sempre su un’idea di testo che si scioglie dalla musica: due spazi sonori distinti che sanno procedere insieme. Niente sonetti sull’amore fino però, piuttosto canzoni pastorali che si allargano e includono doppi sensi – anche erotico – amorosi – dialettali raffinatissimi.

Antico canta infatti sempre e solo in dialetto e, come mi racconta Lorenzo Urciullo (Colapesce), produttore dell’album insieme a Mario Conte, spesso si lascia andare a improvvisazioni che nascono dalla contemplazione dei luoghi, dalla forza evocativa presente nel momento stesso della registrazione: «In Pirchì, che è stata registrata interamente all’aria aperta sulle Madonie, la strofa che recita “terra ca ti taliu, si sempri comu na minna ca mi duna latti puru quannu nun tegnu siti” nasce durante la seconda take di voce e, ascoltando bene la registrazione, si nota che Alfio si commuove durante il cantato. Ovviamente in fase di mix abbiamo lasciato tutto così com’era: una parte purissima e rara. Una gemma a metà brano. Non aveva mai scritto quella strofa, nessuno l’aveva mai sentita, neanche lui: è stato ispirato dalla visione dei monti davanti ai suoi occhi che lo hanno sempre “nutrito”». I testi insomma, sono parte integrante attiva della canzone viscerale di Antico, resta sempre aggrappata alla storia personale del suo autore e alla sua crescita dentro quella stessa culla terrestre: da Ma guarda guarda, in cui al centro c’è la storia commovente del padre, a Diceva me matri, omaggio al nonno, che lo ha cresciuto e gli ha insegnato – mi dice sempre Lorenzo Urciullo «a diventare poeta pastorale e maestro di bioenergetica senza sapere mai di esserlo».