Quella del 2000 era l’estate dei miei 15 anni e seguiva un autunno e un inverno che nel tempo avrei chiamato sempre con il didascalico soprannome “la stagione delle scoperte”. Nel mese di novembre dell’anno precedente avevo iniziato conoscere la musica degli adulti, a spendere tutte le mie paghette in dischi, sempre più immersa nella voce e nei suoni di David Bowie ero entrata in contatto con Brian Eno, andando a scuola ogni mattina, per settimane, avevo ascoltato in loop “Road to nowhere” dei Talking Heads fino a distruggere progressivamente il nastro; mi ero innamorata dei Kraftwerk e giocavo a farmi ogni volta terrorizzare dal suono della vetrina in frantumi in “Showroom dummies”.
Dopo anni di Lucio Battisti, Paolo Conte, Enrico Ruggeri e Fabrizio De André che uscivano dall’autoradio o, più di rado, dallo stereo di casa, mi affascinavano soprattutto gli esperimenti e gli sperimentatori. Mi incuriosiva Klaus Nomi, adoravo Marc Bolan e mi divertivano gli artisti che affidavano ai costumi e al trucco la propria rappresentazione fisica sui palchi e dentro i videoclip, li trovavo tutti affascinanti, irresistibili e spaventosi, in qualche maniera erano un’esperienza sempre eccitante, altra da me, fiabescamente aliena.
Tra i contemporanei della nazione mi piacevano i Bluvertigo, all’inizio dell’estate ero andata ad ascoltare Morgan suonare J.S.Bach in un bellissimo palazzo del centro di Milano, mentre Michel Houellebecq, fresco del successo italiano di Le particelle elementari – che pure avevo letto a primavera come una delle prime rivelazioni letterarie contemporanee della mia vita di giovane adulta – recitava alcune delle sue poesie.
Dunque l’estate era esplosa e io mi ero ritrovata con i sensi spalancati: non erano tanto, o non soltanto, tutte le scoperte di questi artisti e dei loro mondi, delle loro ragioni e della loro portata, quanto il piacere anche fisico e totalizzante del contatto con questo intero grande mondo nuovo delle possibilità, accompagnato alla sensazione crescente e pura che non sarei mai stata sola, che avevo trovato il mio posto e che il mio posto sarebbe stato chissà dove, ovunque ma con quella roba con me, con le canzoni, i libri e il pensiero di opere eterne come qualcosa di caro, presente, vivo.
Il futuro sarebbe stato meraviglioso, sarebbe stato pieno, gonfio, sarebbe stato ricco. Questo pensavo, ragazzina, quando in un pomeriggio rovente di luglio, in macchina con mio padre che mi accompagnava a una mostra – per la prima volta su mia richiesta dopo anni di passività al suo seguito e a quello di mia madre – misi per la prima volta L’era del cinghiale bianco dentro l’autoradio.
Pieni gli alberghi a Tunisi per le vacanze estive, a volte un temporale, non ci faceva uscire.
Avevo conosciuto anche Franco Battiato nella stagione delle scoperte e qualche tempo prima, a primavera, lo avevo persino incontrato di persona a una conferenza sul sufismo – ora occhi chiusi e immaginate una quattordicenne a una conferenza sul sufismo. Alla fine mi ero avvicinata per fargli firmare un disco, avevo scelto di portare la copia di casa, in vinile, de La voce del padrone, uno degli LP che i miei genitori avevano più ascoltato in tutta la loro vita, entrambi, come succede solo con i grandi capolavori che ammantano intere generazioni e che finiscono in doppia copia nelle librerie di famiglia quando due di quella generazione decidono di formarne una.
Quel disco mi aveva rapita, era sperimentale, giocoso, ironico, cattivo: mi faceva ridere e mi faceva commuovere. Se ridi e ti commuovi, iniziai a pensare in quel periodo senza poi smettere mai di pensarlo, è fatta: hai tutto, ti puoi fermare.
Su Battiato, quindi, mi fermai, e mentre con mio padre raggiungevamo le immagini delle opere di Gaudì, le canzoni di quel disco che avrei ricomprato almeno tre volte, regalato a persone giuste e sbagliate, ascoltato su strade della nazione e dell’Europa di cui neppure potevo allora immaginare l’esistenza, si diffondevano nell’abitacolo e raccontavano, oltre la loro stessa forma, di me che non ero più bambina, di me pronta a qualcosa di nuovo, qualcosa da capire, qualcosa da imparare.
A 15 anni sei ancora libero ma la tua libertà, a un certo preciso livello, sarà brevissima, un istante: durerà ancora per poco, poi ti innamorerai, farai cose, inizierai a prenderti il mondo o farti prendere dal mondo, tutto sarà magnifico ma rischioso, tutta sarà terribile e tutto potrà sporcarsi, in altre parole qualcosa si romperà come sempre accade per poter andare avanti: mai nulla sarà più solo tuo, tutto sarà potenzialmente da dividere, da condividere.
Io ascoltavo “Magic Shop” e sorridevo e rabbrividivo emozionata pensando che forse era così che si sentivano quelli che cantavano in uno stadio, mentre gridavo con un signore più grande di mio padre, che riconoscevo da qualche parte mio simile, versi come come:
Supermercati coi reparti sacri / che vendono gli incensi di Dior
ascoltavo“Stranizza d’amuri”, cercavo la traduzione e mi commuovevo e poi la imparavo a memoria, pensavo al “Re del Mondo” che ci tiene prigioniero il cuore, mi domandavo se il giorno della fine davvero non ci sarebbe servito l’inglese e avevo paura davvero per questa storia del giorno della fine; con Battiato imparavo, tra le altre cose, la mia lingua, una lingua culturale, sociale certo, ma pure strettamente tale, imparavo l’italiano e godevo e faticavo.
Niente, allora, era più eccitante della leggera fatica arditamente perseguita del dover capire, del doverci affondare, del doversi spogliare di tutto, per il gusto di conoscere qualcosa. A ripensarci si tratta di una cosa molto simile alla leggera fatica impercettibile della lettura, è la fatica della volontà, una fatica che chiamare fatica è davvero scorretto e che riguarda l’amore, in ogni forma, il prendersi in carico i propri desideri, seguirli per farli fiorire. Un po’ come quando inizi a suonare la chitarra e le dita fanno malissimo per le prime due settimane ma un male bellissimo. Poi verranno i calli, farà meno male ma in qualche modo rimpiangerai per sempre l’immersione iniziale.
Mentre per molte cose, molta musica, molta arte, la fine di quella stagione della vita ha coinciso con il far propria la materia e tenerla con sé, con Battiato quell’impegno magico e speciale non è finito mai, non è mai finto lo stupore e non si è mai esaurita la sua richiesta di esserci, affondare completamente alla scoperta.
Un pomeriggio, avevo forse 16 anni, avevo acquistato Patriots in musicassetta nel mio negozietto di fiducia, per la serata i miei mi avevano dato un coprifuoco tassativo a mezzanotte, così alle undici ho salutato tutti, sono scappata da sola dal pub e mi sono messa seduta su un gradino dell’Upim ad ascoltare la cassetta che avevo iniziato a sentire prima di uscire ma avevo, mio malgrado, dovuto mettere in stop. Un fine serata trascorso continuando poi a mandare indietro e riascoltare e mandare indietro e riascoltare senza sosta “Venezia Istanbul” per compiacermi tutta esaltata dello stacco che precede quell’esplosione pop che fa mi dia un pacchetto di Camel senza filtro e una Minerva e una cronaca alla radio dice che una punta attacca verticalizzando l’area di rigore.
Che suoni, che metrica, che perfezione.
Su un treno regionale mi ritrovavo a piangere a 25anni ascoltando per la duemmillesima volta “La stagione dell’amore”, realizzando colpevolmente in ritardo che quello che sentiamo forte battere elettronico per tutta la canzone altro non è che il battito cardiaco accelerato che non si arresta mai, Battiato ce lo dice così, non solo con le parole: non finisce mai, è inutile, arrenditi, viene e va, muore, ti abbandona ma ritorna, e quando ritorna l’entusiasmo che proverai sarà nuovo, sarà ancora tuo e tu sarai fregata un’altra volta.
In piazza della Scala a Milano camminavo verso la Galleria e profeticamente dall’iPod è partita “Tramonto Occidentale” facendomi sentire provare d’improvviso quel senso di inusitata libertà e magia passeggiando proprio lì lungo il corso o in galleria, accendendomi una sigaretta per il gusto del tabacco che non mi avrebbe fatto male, guardando i miei concittadini in un giorno di festa, sentendomi piacevolmente con loro e piacevolmente davvero lontanissima da chiunque tra loro.
Davanti al cimitero del Verano, a Roma, una mattina, sul finire del primo decennio di questo millennio aspettavo un autobus che non sarebbe arrivato mai fresca di un innamoramento che avrebbe sconvolto interamente la mia vita, mi perdevo in “Risveglio di primavera”: era primavera e Franco Battiato mi diceva quello che stavo vivendo
Sentimenti occulti tra noi, mi innamorai seguendo i ritmi del cuore e mi svegliai in primavera.
L’estate scorsa, con ancora il sale del mare addosso, dopo una cena a base di pizza e pesce in un ristorante di Ognina, nei pressi di Siracusa, guardavo le barche attraccate a un piccolo porto, salivo in auto in anticipo e, mentre aspettavo che un amico finisse di telefonare facendo avanti e indietro davanti a una barca di nome Carisma, nell’attesa guardavo dalla mia portiera aperta tre bambini giocare su un’altra piccola barca simile a un galeone giocattolo. Giocavano forse ai Pirati, forse ai Pokemon, forse a fare Fedez e Chiara Ferragni ai Caraibi, non saprei, ma io li guardavo muoversi geometricamente, li guardavo creare delle piccole traiettorie lungo il ponte della loro micronave mentre ascoltavo“Sequenze e frequenze” che saliva sempre più violenta dall’autoradio in cui avevo appena inserito Sulle corde di Aries, un disco capace di sospendere letteralmente il tempo, di farti sentire la terra della Sicilia che si leva piano, leggera, per lentamente avvolgere il tuo corpo, forse l’intero pianeta Terra.
Il giorno dopo sarei partita per Catania, avrei dormito davanti a quella che per molti anni era stata proprio la casa di Franco Battiato, ogni tanto spiavo da una finestra quasi sempre chiusa il suo palazzo domandomi quale delle finestre di fronte fosse la sua e spostando poi la testa dalla parte dell’Etna pensando a dove invece vive ora, dove dorme, fa colazione, cosa fa? Fa quelle cose che nel mondo immaginiamo nessuno faccia tranne lui?
Camminando per Catania lo pensavo, pensavo sempre a lui, all’ultima volta in cui lo avevo sentito cantare con Alice sotto il vento della primavera di Milano, dando a mia madre la mia sciarpa per non farla ammalare, visto che al concerto l’avevo portata io per il gusto che ho sempre di volere invertire lo s chema, cercando di restituire qualcosa a chi mi ha dato molto, magari attraverso la condivisione proprio di ciò che lui mi aveva dato tempo prima, come per annullare ruoli, per distruggere il tempo visto che, al tempo anagrafico, io non ci credo mai.
Battiato era lì, sotto l’aria che tirava, seduto su una panca sul palco posto accanto a una ruota panoramica inarrestabile e fluorescente, cantava in un luna park e tra i profumi di frittelle e zucchero filato faceva impazzire la platea con “Bandiera Bianca”, “Temporary road”, mi faceva ancora una volta convinta del fatto che “E ti vengo a cercare” sia tutto ciò che possiamo chiedere non solo a una canzone d’amore ma all’amore stesso e faceva poi impazzire gli organizzatori lamentandosi per un tè orribile, innervosito da questa bevanda evidentemente terrificante e facendomi pensare all’intransigenza speciale che forse non lascia mai gli intelligenti, i sensibili, anche col progredire dell’età mentre il tempo, evidentemente, li divora.
In questo caldo di gradi indicibili arriva la notizia di Franco Battiato malato, Alzheimer chissà, arriva in modo ufficioso, da uno status su Facebook di uno che sarebbe suo amico e che però, per qualche ragione che mi è davvero difficile comprendere, ha deciso, con un travestimento nemmeno troppo abile, di rivelare al mondo ciò che invece lui, Battiato, non aveva voluto dirci.
I giornali riprendono la notizia e Facebook si riempie di canzoni che hanno non solo attraversato la mia vita ma fisicamente composto la donna che io sono oggi, come una legione di architetti dell’interiorità e del pensiero; si riempie di congedi come se Battiato fosse effettivamente morto mentre su Twitter #FrancoBattiato diventa uno degli hashtag più utilizzati.
Ho ricevuto alcuni messaggi e telefonate in cui mi si domandava se la notizia fosse vera e credibili o meno. Mentre rispondevo che non sapevo, che io queste cose non le so mai, in me non faceva che montare una forma segreta di commozione da qualche parte, nel corpo, un pianto forte e inespresso che mi ha accompagnata per una sera intera, mentre mangiavo pesce crudo e poi mentre bevevo una cedrata cercando faticosamente di spiegare a una ragazza inglese amica di amici che cosa fosse una sfogliatella e come specificamente fossero fatte diversamente la riccia e la frolla, scrivendole infine indirizzi di pasticcerie napoletane sull’iPhone. Il magone è andato avanti nella notte mentre non prendevo sonno nonostante il ventilatore puntato in linea con la mia posizione preferita per dormire, non ha accennato a sparire mentre decidevo di non scaldare il caffè americano di ieri pomeriggio e berlo in ritardo, freddo, a colazione. Questo pianto sottopelle accompagna il pensiero di quel primo incontro nell’aula magna con una me lontanissima, evidentemente bambina con quel disco in mano: lui che lo prende, me lo firma, mi dà un bacio sulla guancia destra mentre io forse ho la tremarella, mi guarda negli occhi e mi dice «con quegli occhi, tu passa una bella estate». La commozione è qualcosa che si irradia, non perdona, non mi vuole lasciare. Vattene, non voglio sapere niente, vattene. Una bella estate, penso, “una bella estate”.