Amare Ortona a Mare

Tutte le foto sono di Giulia Cavaliere

Cartolina d’Abruzzo dall’estate italiana.

La silenziosa carrozza di prima classe del Frecciabianca che scivola giù lungo tutta la costa adriatica, ospita il mio posto per via di un’offerta di fine vacanze. Si tratta di una di quelle illusioni stagionali tipiche dell’estate, l’ultima per quest’anno, probabilmente, concessami in dono dalla stessa azienda di trasporti che, durante l’intero periodo lavorativo, con un servizio sempre più anarco-surrealista, si prende gioco di me quotidianamente con ritardi, guasti e compilation di annunci bizzarri diffusi a ripetizione dai microfoni dei vagoni.

Il viaggio è una lunga discesa italiana e morbida attraverso piccole stazioni in cui non ci si ferma e un paio di centri turistici romagnoli e marchigiani che si superano in fretta per cadere a picco sempre più verso la punta dello Stivale, raggiungendo lentamente la Puglia. Io mi fermo prima, a Pescara, dove già nel sottopassaggio utile ad abbandonare la stazione, mentre salgo gli scalini, ho la sensazione di aver iniziato da un po’ la mia piccola villeggiatura.

Accade così grazie al bombardamento di immagini che il treno mi ha permesso di collezionare nell’arco delle ore precedenti: piccoli hotel sul lungomare, onde clamorosamente alte e nervose che si sono spaccate a vista d’occhio in mille bolle grigie sugli scogli vicino alla ferrovia, cespugli abbandonati a lato dei cancelli tutti arsi dal sole della controra, costumi stesi che sventolano dai balconi, materassini e altri gonfiabili dalle forme selvatiche (coccodrilli, orsi, panda) appoggiati agli ingressi delle piccole villette ma, specialmente, quel mix attraente di colori pastello delle abitazioni costruite di recente con l’intento programmatico di riprodurre il mood alla marinara tipico dei luoghi di svago e relax sulla costa, i colori delle ferie italiane, qualcosa che non brilla quasi mai ma richiama la provincia sommersa dal mare che l’accompagna, stilizzandosi in una sensazione di magnifico disfacimento che da qualche anno sintetizzo nella semplice ed equivocabile espressione “ESTATE ITALIANA“.

Non sono qua, ancora una volta, per nutrirmi di magnifici maritozzi pescaresi con la panna montata più buona della nazione, né per qualche laguna blu sognata per mesi davanti al computer; non sono qua per sballarmi la notte nei club estivi né per qualche altra specifica ragione vacanziera enunciabile e riconoscibile.

Sono qua per la compagnia, certo, per i bagni al crepuscolo, sicuro, per sorseggiare ancora una volta i magnifici mojito di L. appena arriverò a Francavilla e me ne starò stanca, con le mie occhiaie lombarde, con ancora una mano appoggiata sulla maniglia espandibile del trolley e lo zaino pieno di libri sulle spalle, a godermi il semplice ma adrenalinico piacere dell’inizio di qualcosa, il godimento della promessa delle cose che saranno che supera per natura quello delle cose stesse.

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“Perché accetti di venire qui? Perché ami questo posto?”, me lo chiede anche S. spesso con l’ossessione dell’esigenza, ogni volta che arrivo in stazione e stiamo andando a casa sua e poi a fasi alternate per tutta la vacanza, mentre aspettiamo che il sole si nasconda definitivamente dietro una montagna o mentre siamo nella sua Panda tornando dal mare e ascoltiamo discutibili programmazioni di stazioni radio che diventano fruscio alla terza curva.

Sono qua soprattutto per respirare, nel modo più completo possibile, vale a dire rianimando il mio corpo dopo l’inverno di pianure, aperitivi e cementi, dopo il lavoro, dopo tutto quello che conosciamo in molti nel primo mondo, specialmente per respirare l’estate italiana, il suo sentimento e la sua forma che ho intimamente e affettivamente bisogno di toccare, di definire, tracciare. Non esiste nessuna Italia che mi offra tutto questo senso di ricognizione nazionale umana e geografica più del centro del Paese, questo centro decadente che richiama nella mia mente mastodontici sbarchi portuali di sostanze chimiche stupefacenti, oppiacei dietro i palazzi sgretolati, ere di discoteche troppo lontane da quelle dei miei diciannove anni, la formazione giovanile di Andrea Pazienza al sale adriatico della costa dell’indolenza, la cassa integrazione in blocco nelle vecchie industrie di un’Italia lontana e le rispettive reinvenzioni umane e poi l’abbandono di ogni cosa, l’impossibilità della fuga.

Forse non è corretto, dice il pensiero razionale, credere che in tutto questo si annidi una forma di verità gonfia del romanticismo accluso a ciò che è reale, radicale, terreno e vero, ma è per questo senso del vero che io sento offerto da questa microporzione del mondo che io ho sempre voglia di ritornare qui.

Dal lungo balcone di casa di S. possiamo vedere la Majella, viva e verde la mattina e la sera nera, in controluce, al tramonto, sdraiata e nuda con il sole che le cola sopra, arancione, enorme prima di andarsene. La scena è di puro erotismo naturale e noi la gustiamo da questa posizione umana, una casa degli anni Sessanta sul finire di una strada chiusa. Mangiamo patatine dai gusti fintamente esotici e beviamo birre ogni giorno di marche diverse, a volte non parliamo per tutto il tempo e restiamo a osservare la scena amorosa, altre volte rievochiamo la leggenda di Maja, la più bella delle Pleiadi e madre impietrita dal dolore, riversa su se stessa, che fa ascoltare ancora oggi i suoi lamenti per la morte del figlio, gigante e bellissimo, ai pastori della zona, mentre se ne resta con lo sguardo fisso al mare di Ortona – dove approdò in zattera sfuggendo dalla Frigia – a permetterci di squadrarla in tutta la sua armonia.

Il porto di Maja qui lo vediamo ogni sera visto che, in senso convenzionale, non c’è nulla da fare. Passeggiamo per il centro e ogni tanto, mentre ascoltiamo il cantante di qualche orchestra della zona consumarsi nella riproduzione di grandi successi dei New Trolls o il presentatore di un concorso di bellezza locale annunciare il terzo posto a pari merito, io visualizzo a lampi, dall’esterno, il luogo in cui mi trovo: una falesia sul litorale adriatico abitata probabilmente anche nell’Età del bronzo e poi conosciuta alla perfezione da geografi greci, una città che fu poi romana, annessa all’impero bizantino e conquistata dai Normanni e dagli Aragonesi che costruirono il magnifico castello che ogni notte, illuminato, guardiamo nelle sue sfumature bianchissime prima di tornare a casa.

Bombardata durante la prima guerra mondiale e teatro di devastanti scontri durante il secondo confiltto, rasa al suolo al punto tale che Winston Churchill la definì “La Stalingrado d’Italia”, Ortona e il suo San Rocco di cui osservo in religiosa attenzione nordica la magica processione il 16 d’agosto, la sua giornata, hanno dato i natali a un altro Rocco importante, la più grande star del porno italiano: Rocco Antonio Tano, cioè Rocco Siffredi.

S. e io, una mattina, andiamo sulle sue tracce. Lo cerchiamo nel complesso di case popolari che, per un simpatico gioco del destino, si trovano a due passi dalla casa dove stiamo vivendo, con balconi vista Majella anche loro. Nella biografia di Siffredi c’è un inizio carriera alternativo nella Marina mercantile, così non mi è difficile vagheggiare, mentre sotto il sole delle undici cerchiamo il citofono della famiglia Tano di cui S. si ricorda alla perfezione, i suoi ritorni a casa prima del suo futuro e le sue sigarette vista montagne al tramonto, di fronte a quell’eiaculazione del sole su quella bellissima silhouette femminile.

Sfinite dall’inutile ricerca chiediamo indicazioni a una signora che vive nello stesso complesso residenziale e che ci sembra piuttosto rancorosa nei confronti del più profanto tra i Rocco della città: “Non tornava mai!”, ci dice come una nonna un po’ offesa, e aggiunge: “Non credetegli quando racconta che aveva l’orto e il trattore, qua non c’era proprio nulla!”. Probabilmente ha ragione lei.

Al mare andiamo a Fossacesia Marina oppure allo stabilimento Il Cavalluccio dove, mi racconta un altro amico abruzzese, amava fare i bagni e stare al sole anche Sergio Endrigo di cui mi piace seguire le tracce estive. Fossacesia, invece, è un paese decadente, con una di quelle chiese in cui si celebra la messa all’esterno, in cortile, una visione architettonica moderna che rispecchia perfettamente la mia idea fotografica dell’estate italiana. A Fossacesia non c’è nulla se non una spiaggia lunga e molto vuota, una spiaggia libera dove tira un vento piacevole e a tratti oceanico. Io e S. ascoltiamo Dusty Springfield, sonnecchiamo, nuotiamo: leggo un libro straziante e straordinario di Aleksandar Hemon con la copertina bianca e morbida che profumerà di sale per anni e nell’ora più calda faccio sosta a un mercatino sul lungomare – che è poi l’intero paese – dove compro un costume turchese e rosa acceso e un dvd sigillato di un film con Winona Ryder che scoprirò funzionante solo per metà non appena rientrerò a casa.

Abruzzo

Di giorno questo mare mi sembra luminoso e disperato, familiare e amico. Lui non mi conosce ma io conosco lui e guardandolo so definire gli estremi del ritratto malinconico che la mia mente ricostruirà, al ritorno, sul ricordo di queste giornate d’estate. Penso, guardando una famiglia numerosa com’è quella di cui sono parte, che il nome Carolina non può che appartenere a una bimba capricciosa e che il piccolo Tommaso si diverte davvero più di quanto potrei mai raccontare in qualsiasi piccola narrazione, nel fare minuscole flessioni simpatiche con le mani appoggiate al lettino sotto il sole, contando i suoi esercizi utilizzando una progressione numerica che esiste solo nella sua realtà.

Sulle spiagge d’Abruzzo, prima di una gita nel pied à terre estivo di Gabriele D’Annunzio, pieno di bigliettini appassionati per le sue amanti e dopo una visita alla statua dedicata a Ennio Flaiano – quasi abbandonata e ricca di quell’intenso decadimento straziante – posso concedermi soprattutto il piacere di gustare la nostalgia, quella, ad esempio, generata dal riconoscimento a posteriori dell’importanza assunta da ninnoli, collanine, ciondoli con animaletti, girocollo in caucciù, bracciali colorati e fili multicolore di treccine per capelli: emblemi assoluti dell’estate bambina, di una preadolescente che precocemente vuole essere adulta e diventata adulta ripensa di continuo al piacere perduto del non esserlo.