Mar Milanese

Foto di Giulia Cavaliere

Genova, Camogli e altre ligurie temporanee.

Non ricordo quando abbiamo iniziato ad andare regolarmente in Liguria. Alcune volte, il sabato, mio padre mi avvisava del fatto che il giorno dopo saremmo partiti per Genova. La domenica mattina ci mettevamo in auto sempre più tardi di quanto previsto e l’incedere dei minuti che segnavano il ritardo in crescita, generava discussioni lunghissime tra i miei genitori. Prendi la borsa, e l’acqua, e i cracker per il viaggio, il Travelgum e poi la Xamamina, il maglioncino, la felpa, lo zainetto, le cassette, il walkman; un elenco poi esponenzialmente cresciuto con la nascita delle gemelle: prendi i pannolini, le borse, i biberon, i ciucci, i pupazzi, la bambola 1 e la bambola 2, le felpe ma che siano uguali, i maglioni uguali ma di colori diversi, e giù a litigare.

Poi si partiva. Paolo Conte cantava dall’autoradio grazie a una rosa ai miei occhi infinita di musicassette di mio padre: il concerto a Parigi registrato da non si sa più chi che dava il cambio a una compilation copiata da X e Aguaplano comprato all’Autogrill in un viaggio “di tanti anni fa”. Ho conosciuto il cantautore astigiano in quei viaggi di andata e ritorno da Genova, durata all’incirca un’ora e mezza ogni volta causa code, rallentamenti, pipì, capricci di varia natura. Solo molti anni dopo avrei scoperto che Paolo Conte è l’autore di Genova per noi, il pezzo che meglio racconta cosa può arrivare a incarnare il capoluogo ligure per chiunque arrivi da una forma, pur sempre diversa, di vicino entroterra.

Io arrivavo dalla pianura padana, quella de La fisarmonica di Stradella e mi piaceva dal sedile posteriore, riconoscere la mia terra in una canzone, i luoghi dei nonni uscire dall’autoradio.

Mi piaceva anche, sopra ogni cosa, vivere ogni volta con quella forma tipicamente infantile di sorpresa reiterata e paradossalmente attesa, quel momento in cui l’autostrada, dopo molte gallerie, fa una curva e improvvisamente, come dice invece Ivano Fossati in un’altra bellissima canzone italiana: IL MARE. La ritualità imposta da me bambina era tutta nell’urlo: “Il mare!” non appena fosse possibile scorgerlo all’orizzonte: mia madre si preparava evidentemente all’esclamazione richiesta e insieme riempivamo, in pochi secondi magici, l’automobile di finto eppure molto autentico stupore.

Genova per me era strade molto precise, una via di un quartiere borghese, residenziale e molto verde dove parcheggiare, era la casa di un amico di mio padre, un appartamento molto grande che abbiamo visto quasi nascere, comporsi, modificarsi al proprio interno negli arredi, accogliere l’arrivo di una bambina proprio nello stesso periodo in cui, anche casa nostra, aveva assunto le sembianze di un malinconico castello dove non facevano che risuonare ninne nanne e dove ogni cosa, regolarmente, a causa di un incantesimo, si sdoppiava e profumava di latte, sostanze sterilizzanti, vari tipi di borotalco.

Genova era soprattutto mare invernale, pesto mangiato in qualche ristorante del centro, nei vicoli, una casa sulla scogliera dove andare in gita tutti insieme con il primo sole: Puntachiappa, Boccadasse e altri nomi composti che mi facevano ridere. Genova era il rituale della focaccia sulla spiaggia e mia madre che prima di ripartire ne comprava tranci su tranci nella speranza di conservare quel gusto e riproporlo poi lei stessa nella nostra cucina la sera, il giorno dopo o diversi giorni dopo, dopo averla surgelata.

Non so quanto mi divertissi in queste gite genovesi, il sentimento del divertimento di quando eravamo piccoli mi pare sempre indecifrabile da quando sono adulta ma la certezza che ho, su quelle giornate liguri, è che grazie a loro sperimentavo gamme emotive nuove in una forma di esaltazione e amplificazione massima di ciò che mi capitava di provare nella mia vita di tutti i giorni. Su tutte la malinconia di osservare le montagne lasciando piano il lungomare, la sera, ritornando, guardando le piccole luci delle case lontane accese, mentre Paolo Conte continuava a cantare di libertà e perline colorate, orchestre di Napoli, loggioni, pomeriggi azzurri, Mocambo, giornate al mare con solo mille lire in tasca e tante altre cose che non sapevo della vita.

E il mare? Dov’era il mare in queste giornate al mare? Il mare quasi non c’era, se ci ripenso, era uno sfondo alle attività che rendevano quelle ore speciali, mai il vero protagonista, sempre un pretesto. A casa mia, per la verità, il mare come elemento centrale dello svago familiare non è mai stato granché considerato, anzi, era più una fatica che la montagna ci avrebbe invece evitato, qualcosa che era importante avere presente, magari stare a guardare, a dispetto di tutta la vita da spiaggia possibile.

Da mia madre ho ereditato l’amore per il nuoto selvaggio, lontano dalla riva, al largo, in quel  dove quando dici “ehi, andiamo ?” la maggior parte delle persone ti guarda come se stessi farneticando. Eppure, devo dire, il Mar Ligure, tanto vicino e appunto tangenzialmente frequentato nella bassa stagione, non è stato il mare dove sono diventata una buona nuotatrice.

Solo molti anni dopo quelle gite a cui con l’arrivo dell’adolescenza smisi di partecipare per godermi casa libera in quelle domeniche, invitare amiche e fidanzati dell’epoca ad ascoltare cd, fumare le prime sigarette con l’incenso acceso e mangiare velocissime paste al pesto confezionato, scoprii, da me, la Liguria e me ne innamorai.

A Camogli andavamo ogni tanto, in quelle domeniche, specie a primavera, a mangiare la focaccia sulla spiaggia, qualche foto, ne sono certa, ancora ritrae me e i miei avvolti nei nostri giubbotti in jeans di varie tonalità di azzurro.E il mare? Dov’era il mare in queste giornate al mare? Il mare quasi non c’era, se ci ripenso, era uno sfondo alle attività che rendevano quelle ore speciali, mai il vero protagonista, sempre un pretesto.

Verso i 17 anni, cartina alla mano, io e i miei coetanei ci rendemmo conto tutti quanti di quanto, quella piccola località, gioiello tra i gioielli del Levante, fosse vicinissima alla nostra città e scoprimmo un treno che parte tuttora intorno alle 7 da Milano Centrale, passa da Pavia dopo 20 minuti e attraversa Lombardia, un po’ di Piemonte, approda poi nelle mille stazioni di Genova e le supera per fermarsi, ogni pochi minuti, in una località ligure diversa: Recco, Camogli e tutte quelle altre meraviglie da cartolina: tutte coi pini marittimi, granite multicolore a ogni angolo ma pure ville maestose, palme, una narrativa da antologia, poesie dedicate in ogni dove, Montale a Monterosso, Sbarbaro a Varazze. Il treno, che si chiama didascalicamente Treno del mare, è un concentrato di ragazzini che scappano dalle città per un’economica gita in giornata, coppie di giovani avvocati vestite Sergio Tacchini e New Balance che hanno prenotato all’ultimo, il venerdì sera, la peggiore pensione possibile a Sestri Levante perché le più belle erano già al tutto esaurito, signore di una certa età che raggiungono con i loro mariti, o sole, la loro casa di villeggiatura. Situata senz’altro tra Santa Margherita e Rapallo, quella casa è loro da decenni, spesso dal boom economico che portò tantissimi milanesi (e pavesi) a stabilirsi stazionariamente in una seconda residenza estiva ligure che conveniva acquistare, poi passare ai figli e ai nipoti, futuri studenti in prestigiose Università private e pubbliche di corsi di Laurea generalmente dalla progettualità quantomeno possibile. Mai Lettere e Filosofia, quasi sempre Giurisprudenza, Economia, Medicina, Ingegneria.

Tutti stipati sul treno, che alla seconda fermata può essere così pieno, anche negli spazi in piedi, da impedire a chiunque di salire, gli umani di città del sud della Lombardia, scappano al mare il sabato e la domenica mattina, raggiungono una costa che hanno felicemente imparato a sentire propria, rifugio panoramico e meritato dopo mesi di lavoro che sembrano non finire neppure al 24 luglio, settimane di scarpinate tra tram, metropolitane, aperitivi sui Navigli per ‘salutare’ chi non vedi da mesi e mesi e non si capisce per quale ragione dovresti salutare in vista di due settimane di assenza dalla città, pendolarismi, occhiaie, sistema nervoso alterato.

Quando, per la prima volta in ogni stagione estiva, raggiungi il centro di Camogli, quando hai percorso le piccole scale che ti portano dalla stazione al lungomare e poi dal lungomare alla spiaggia – una ritualità che si ripete in molti dei centri del Levante raggiungibili con il Treno del mare – quel piccolo paese di case colorate pastello sembra casa tua, ti sembra complice, un amico assoluto ed eterno, un amico che, dunque, ti salverà. Il mare in giornata è questo senso di salvezza estremo, questa sensazione di improvvisa concessione impudica che nel weekend ti viene fatta dopo tanto studiare, dopo tanto lavorare durante la settimana, durante tutto l’anno, dopo tante camicie e tanti obblighi. Tocchi i piccoli sassi della spiaggia libera e in pochi secondi sei quasi nudo, bianco come il latte, in acqua. Subito ti allontani tanto da riva, in modo da avere la visuale completa, dal centro del piccolo mare, delle montagne che sovrastano quella costa tanto stretta. Vedi i panni stesi di chi dal 7 giugno staziona nella propria seconda casa e provi un senso di invidia naturale: non del loro ombrellone riservato, non della doccia gratis – sai che ne farai ventisette nelle ore a venire e le pagherai a gettoni una per una  -, non per la comodità, non per l’eleganza con cui raggiungono la spiaggia riposati del non aver viaggiato su quel treno ma perché di treno, tu, ne prenderai soprattutto un altro, alle 18.30: un regionale all’aria condizionata profumata di salsedine, dove tutti siedono accanto al loro piccolo sacchetto pieno di tranci di focaccia, ancora illusi nel sogno di poter portare a casa la giornata avvolta in carta antiunto. Una giornata che però non si può riprodurre mai, nella propria ossatura, tra le mura domestiche di città: dev’essere per questo che – e l’ho imparato da adulta – la focaccia non è buona mai superato il cartello barrato della regione Liguria. Sarà l’aria in cui nasce che non si può replicare altrove, sarà che la si gusta di più con il chinotto in bottiglietta e le mani ancora salate dal bagno appena fatto: un peccato, si direbbe, ma anche, tutto sommato, meglio così.