Ascesa e declino di Morgan: un’epopea sintetica di Marco Castoldi

Dalla cocaina a X-Factor. Storia di un cantautore perso dentro se stesso.

Morgan, Marco Castoldi - Foto per gentile concessione di Maurizio Camagna
Morgan, Marco Castoldi – Foto per gentile concessione di Maurizio Camagna

“La droga apre i sensi a chi li ha gia’ sviluppati e li chiude agli altri. Io non uso la cocaina per lo sballo, a me lo sballo non interessa.”
(Marco Castoldi, “Max” 2010)

“L’eroina mi ha liberato, odio parlare di questo a causa di mia figlia e della mia famiglia. Ma mi ha reso incredibilmente creativo”
(Damon Albarn, “Q” 2014)

Ad essere precisi c’è una sfumatura assai lieve eppure molto importante che fa la differenza tra la dichiarazione rilasciata pochi giorni fa dal frontman dei Blur e quella che nel febbraio del 2010 divenne l’apparente causa di ostracismo artistico nei confronti di Morgan, frontman degli ex (mai del tutto ex) Bluvertigo. In quella chiacchieratissima intervista il cantautore monzese affermava di fare uso di cocaina in forma di basi – cioè crack – come antidepressivo; “la uso per curarmi, fa bene” diceva, “anche Freud la prescriveva” aggiungeva, universalizzando i benefici derivati dall’uso quotidiano della sostanza e dimenticando quel riflessivo “mi fa bene” che avrebbe forse edulcorato la percezione di queste parole e non gli avrebbe dunque impedito di continuare a fare il proprio lavoro e di presentarsi, dopo poche settimane, sul palco dell’Ariston per il concorso canoro più famoso della Nazione. Oppure forse, siamo onesti, non sarebbe comunque andata così perché siamo in Italia e non in Gran Bretagna, e molto semplicemente al rock, in tutte le sue più violente e scorrette sfaccettature, siamo culturalmente meno avvezzi.

Certo fa abbastanza effetto ad oggi parlare di Morgan, Marco Castoldi, avvicinandolo al concetto di rock, abituati come siamo a incontrare il suo nome e la sua faccia bianca e smascellante sugli schermi televisivi, nei rotocalchi e se va bene in qualche discoteca della provincia italiana dove appare come dj per un’ora scarsa – proprio come accade ai tronisti di Uomini e Donne o ai reduci del Grande Fratello – per deliziare però il pubblico con chicche musicali insolite per le pareti che le ospitano. Orde di ragazzine intasano il web con nickname adolescenziali che somigliano tanto a quelli che nella mia generazione, in una tarda infanzia pre-web, si usavano confidenzialmente di pomeriggio, in giardino, riferendosi a eroi del pop come i Take That o i Backstreet Boys. Ci si imbatte in una gran quantità di “morganina98” che non solo riempiono Instagram di fotografie di Morgan circondate da cuoricini, ma tentano di imitarne le pose, provano a vestirsi come lui con giacche nere, camicie bianche e fiocchi anarchici à la Baudelaire legati intorno al collo. Eppure…


(foto di Maurizio Camagna)

Eppure c’è stato un mondo, neppure troppo lontano, in cui Morgan rappresentava in Italia un progetto rock che sfidava le declinazioni di un decennio – gli anni ’90 – in cui chitarrone e camicie di flanella la facevano da padrone. Un tempo di All Stars che tornavano in auge, di lente trasformazioni ginnasiali in Axl Rose, di magliette di Kurt Cobain – almeno tre in ogni classe. Sembra quasi normale a pensarci oggi, eppure, allora, c’era anche chi non amava questa roba, chi ascoltava i Kraftwerk in cameretta, si spaventava ed esaltava su “Showroom Dummies”, con Robert Smith, desiderava essere risucchiato fisicamente dai dischi di David Bowie e pensava che il futuro estetico del rock fosse immeritatamente finito tra le mani di maschi sporchi e brutti. Qualcuno amava il synth pop, rivoleva la psichedelia elegante e fascinosamente tossica degli anni ’70, e non sapeva a chi affidarsi per sperare che la cravatta tornasse a sostituire la maglietta Fruit of the loom con sopra stampato il faccione di Eddie Vedder.

Una voce rock per una minoranza di persone, questo era Morgan, questo erano in qualche modo i Bluvertigo che nella seconda metà degli anni ’90 rappresentarono la più radicale piccola avanguardia del pop-rock italiano, comparendo nei televisori d’Italia vestiti proprio come quei quattro di Düsseldorf, circondati dai sintetizzatori, mimando passi di danza di anni Ottanta perduti, duettando con Franco Battiato e con Alice, vincendo con il secondo album, Metallo non Metallo, (1997, più di 100.000 copie vendute, uno spazio anche nella classifica di Rolling Stone tra i 100 dischi italiani migliori di sempre) anche un Europe Music Award. Una band con una vita artistica in apparente discesa, in un’epoca in cui se eri bravo potevi ancora sperare di emergere davvero, un momento storico in cui la grande discografia aveva ancora denaro sufficiente per investire nel tuo talento: amati dalla critica, lentamente inseriti nello scenario italiano mainstream e colto, soprattutto proprio grazie alla figura di Morgan, i Bluvertigo riescono a ritagliarsi una posizione d’onore nella musica italiana che si affaccia sul nuovo millennio.


(foto di Maurizio Camagna)

Idee a non finire: un disco dalle aspirazioni elettroniche europee (Zero, 1999) inizialmente progettato perché ogni brano seguisse una sorta di Dogma musicale, ricalcando l’idea cinematografica di Lars Von Trier e Thomas Vinterberg (Dogma 95), un video musicale per non udenti con i compagni di etichetta e amici di sperimentazioni Subsonica che diventerà un grandissimo successo ancora oggi riproposto dai dj meno aggiornati (“Discolabirinto”, 1999), un’approfondita intervista ai loro idoli, i Duran Duran, da band a band, andata in onda per Mtv all’interno del programma “Sonic”.
Morgan però è stato molto di più del cantante di un gruppo popolare e a tratti persino di successo, ben di più dell’autore di qualche pezzo rock’n’roll sghembo in un’Italia tutto sommato televisivamente più rocker di quella odierna. Se per alcuni, come si diceva, questo giovane ragazzo di provincia, figlio di un mobiliere e di una maestra, virtuoso del basso, dei synth, del pianoforte, poi cantante e all’occorrenza anche chitarrista, ha rappresentato un mondo musicale diverso da quello in auge nel quale cullarsi finalmente senza sentirsi soli, per altri, i più giovani, è stato quasi un educatore, un apripista culturale. Non era così scontato per un ragazzino agli sgoccioli dei sudatissimi anni ’90 vedere un uomo truccato in televisione cantare una canzone intitolata “La Crisi”, nel primo pomeriggio del sabato all’edizione nazionale di Top of the pops, non era ovvio vedere comparire tra Ligabue e Goo Goo Dolls un tizio con i capelli arancio e lo smalto nero sulle unghie, sempre e soltanto di una sola mano. Ancora meno quotidiane erano le sue giacche, il suo look d’altri tempi, tutto intriso di riferimenti che nessun quattordicenne pur affamato di musica, allora, poteva ancora conoscere. Lui, soprattutto, spiegava le cose. Scriveva testi senza rima, canzoni diverse da quelle che radio e gite scolastiche ci avevano abituato ad ascoltare, rifuggiva le scontatezze e articolava, brano dopo brano, dei pamphlet di filosofia che allora ci sembrava tutt’altro che spicciola. Tra un libello e l’altro arrivava la spiegazione: le parole venivano raccontate, i riferimenti storico-musicali venivano tutti sviscerati, citati, analizzati. Morgan era (ed è) un vero affabulatore, una personalità da palcoscenico perfettamente in grado di invogliare lo spettatore ad avvicinarsi a nuovi mondi, i suoi mondi.


(foto di Maurizio Camagna)

Non a caso, messi un istante in un angolo questo suo mix di snobismo colto, di antipatia sgarbiana (che aspirava però a quella di Carmelo Bene), Marco Castoldi non ha smesso di raccontare universi ed eclettismi. Un pomeriggio della tarda primavera del 2003 potevi dunque improvvisamente svegliarti da un sonno postprandiale leggero e già quasi estivo, grazie alle note della radio e a una canzone che musicalmente ancora non smette di ricordare “Città vuota” di Mina e che ha l’aria, fin dal primo ascolto, di essere stata scritta da un cantautore di un’Italia lontana, di quelli con una giacca a coste, un foulard al collo, una balera estiva gremita davanti. Eppure questa canzone era ancora la sua, il singolo quasi perfetto di un nuovo Morgan solista, tornato dopo qualche anno di silenzio e una bambina nata da poco da una storia d’amore maudit che ha fatto, ora si può dire, sognare l’italia che di sognare aveva voglia. Questa volta il rock, in apparenza, non c’entrava più, per un attimo erano spariti BowieFrippEno, era finita in secondo piano anche la trilogia berlinese, la letteratura francese, le chitarre distorte, i viaggi sovrappensiero. C’era, invece, un disco di musica organica che voleva provare ad essere il corrispettivo musicale della “Casa sulla cascata” di Frank Lloyd Wright, il re dell’architettura organica. La musica organica è quella composta in un appartamento al numero 3 di via Sismondi, nel quartiere milanese di Città Studi, in cui prendono vita i suoni registrati e campionati delle porte, delle automobili che sfrecciano veloci lì, a pochi passi, sulla circonvallazione esterna: le maracas che si ascoltano non sono vere maracas ma un barattolo di camomilla della figlia Anna Lou. Canzoni dell’appartamento (Targa Tenco come Migliore opera prima nel 2003) è un nuovo inizio, ora che i Bluvertigo sembrano essersi congelati, presi una pausa. Un nuovo inizio, abbiamo detto, che guarda alla storia del cantautorato classico italiano, un ritorno alle origini, a Umberto Bindi, a Luigi Tenco, a Domenico Modugno. Dal vivo Morgan e la sua band, per l’occasione chiamata “Le sagome”, suonano in un salotto riprodotto sul palco con tappezzerie degli anni sessanta e rose rampicanti che avvolgono i microfoni. L’introduzione al concerto è sempre la stessa: un breve racconto romantico sulla nascita dell’edilizia popolare civile a Milano durante il boom economico, quella che ha dato vita a case piene di appartamenti come siamo abituati a vederle oggi nelle grandi città, esattamente come il palazzo riprodotto sulla copertina dell’album.
Il viaggio nel passato è senza fine, ed è così pertinente, raffinato, misurato, in grado di non risultare mai posticcio per via delle evidenti capacità compositive del suo autore, che aiuta l’ascoltatore a rituffarsi nel mondo dei padri, a conoscere quindi, ancora una volta grazie a Morgan, un tempo musicale lontano, distante dell’indole artistica della contemporaneità.

Persino Dori Ghezzi, moglie di Fabrizio De André, si accorgerà delle enormi doti artistiche di questo ragazzo e lo inviterà, alla fine di un piccolo tributo al cantautore genovese, a rimettere mano e ridare vita a “Non al denaro, non all’amore né al cielo”, non solo disco capitale ma uno dei più importanti concept album italiani di sempre. Morgan prende alla lettera la proposta ma non trova le partiture originali di Nicola Piovani (che nel 1971, venticinquenne, fu autore di musiche e arrangiamenti del disco). Morgan inizia allora a recuperare da solo, a orecchio, tutte le musiche, e nel 2005 dà alle stampe un remake baroccheggiante, arioso e magistrale di quell’album di De André, stupendo e catturando le attenzioni della critica e portando il cantautore nelle stanze di tanti giovanissimi per la prima volta.
In quel periodo, nel frattempo, la figura di Morgan comincia ad essere vivamente presente anche sui rotocalchi per questioni sentimentali che lo vedono protagonista, insieme alla compagna Asia Argento, di alti e bassi amorosi in giro per il mondo: tradimenti, riconciliazioni e ripensamenti fanno la spola con lui tra Los Angeles e Milano.
Nel 2007, dopo una gran quantità di concerti in giro per l’Italia con le canzoni di De André, versioni voce e piano dei brani di Canzoni dell’appartamento, nuovi pezzi eseguiti una volta e poi per mesi mai più, esce Da A ad A, il secondo lavoro solista, un’opera elegantissima, nuovamente precisa, pazza e sorprendente nonché, attualmente, ultimo album di inediti di Morgan.
Una nebbia sempre un po’ più densa, pesante, asfittica, ha iniziato ad avvolgere, a partire da allora, la figura di quest’autore, considerato tuttora il più talentuoso musicista italiano delle generazioni successive a quelle oggi inseribili nel cantautorato classico. Lentamente le voci su una dipendenza dalle droghe hanno cominciato a diffondersi e i live, sempre più lunghi prima e sempre più rari poi, hanno iniziato a rappresentare più un mondo di riferimenti (attraverso le cover di brani di quegli stessi autori ispiratori) che l’originalità artistica del loro esecutore. Piano piano quella modalità educativa e positivamente colta, capace di coinvolgere tanto con la musica quanto con i propri racconti l’ascoltatore, ha iniziato a ritorcersi contro Morgan che è diventato, artisticamente, l’ombra di sé stesso e del proprio talento. Non serve una lente d’ingrandimento precisa per notare ciò che dettaglio non è: persino le cover, eseguite per anni dal vivo in molti locali del Paese, hanno lentamente perso il loro quid nell’interpretazione, nella reinvenzione che era, di Morgan, una cifra stilistica caratterizzante. Ora, quelle brillanti esecuzioni che si potevano ascoltare in lunghi recital di 4 ore solo piano e voce per pochi intimi, sono lasciate ai posteri nelle registrazioni di due album disastrosi: Italian Songbook Vol.1 e Vol.2.


Foto di Donata Clovis