Ci voleva Bob Mould, l’ex leader dei grandi Hüsker Dü, per superare lo stereotipo della triste traiettoria del punk senile che uccide se stesso e la sua musica. Con “Patch the Sky” è il rock’n’roll che torna a vivere
Per capire la strada battuta dai dodici pezzi di Patch the Sky, il nuovo disco solista dell’ex leader degli Hüsker Dü Bob Mould, occorre fare qualche passo molto molto indietro. Grandissimo gruppo hardcore (1979-1988), gli Hüsker Dü in verità amavano alla follia e praticavano con disinvoltura suoni di band diverse come Buzzcocks ma pure Beatles, di Jimi Hendrix come dei Talking heads e, soprattutto, consacrarono i propri esordi all’impresa di fondare una grande cover band dei Ramones. In questi nomi così caldi, così affettivamente rock, punk rock e persino vertiginosamente pop, risiede il primo imprinting del multiforme talento di Bob Mould.
Re dell’hardcore, certo, ma più core che hard, e non solo per una naturale propensione al mix di rumore e melodia ma anche per una tensione emotiva costante all’interno dei brani e dei testi. Oggi Mould ha 55 anni e ha maturato il privilegio dei grandi: fare i conti soltanto con sé stesso. In occasione della nuova uscita, racconta di aver finalmente capito cosa sa fare meglio. Con Patch the Sky, infatti, realizza il terzo lavoro incentrato sul ritorno all’essenziale, dopo l’esperienza con gli Sugar e tentativi solistici ben più estremi. Qua, finalmente, in brani come Voices in My Head, Losing Sleep, Pray for the Rain e più diffusamente nell’intero concept dell’album, sembra far pace con il proprio destino di punk rocker che si riscopre cantautore per chitarra e che, mentre riconosce i grandi nomi di chi sta proseguendo la tradizione di autorialità dello strumento – War on Drugs, Kurt Vile, Thee Oh Sees, Courtney Barnett, Torres, St. Vincent, Alabama Shakes, solo per dirne alcuni – accetta e mette a fuoco al meglio il proprio talento mccartneiano di scrivere perfette melodie pop-punk-rock killer, come se fosse in possesso di quella formula magica che permette di dare alla luce, eternamente, brani portatori di identità e personalità, ben oltre tempi, generi, etichette, età che avanza.
Già, perché l’animo punk rock che faceva di Mould il fan dei Ramones non è morto, anzi, è tanto vivo da riuscire a liberarlo da un fardello che oggi sarebbe ben più ignominioso: l’orrore della ripetitività. Niente carriera con strascichi vergognosi da vecchio punk senza nerbo, niente presente così mediocre da uccidere un glorioso passato ma, piuttosto, una produzione che rafforza l’immagine da leader che fu.