Lucio Corsi: life on Vetulonia

Life on Vetulonia (GR)

20 / 12 / 2014

Anche io come Lucio Dalla ho incontrato davvero il mio Sonny Boy, non eravamo nel Parco della Luna ma sulla riva destra del “piccolo Naviglio” di Milano. Lui si chiama Lucio Corsi, ha 21 anni soltanto e dunque non ha segni del tempo sulla pelle ma, proprio come quel Sonny Boy cantato nel 1980, pare aver disegnata sulle braccia la mappa delle stelle e muoversi più che di frequente, e con disinvoltura, tra la Terra e la Luna sopra a un cavallo di legno.

Il suo cavallo di legno è una chitarra acustica e nello spazio sospeso tra la terra e il cielo ci sono le sue canzoni che il 13 gennaio potremo ascoltare in un album d’esordio, ALTALENA BOY / VETULONIA DAKAR, concepito su due lati, come fosse un vecchio LP composto da due EP (il secondo è già su Spotify) che danno ai due lati i rispettivi titoli.

Con il nome di battesimo morbido e familiare dei più grandi cantautori italiani, un taglio di capelli alla Ziggy Stardust, camicie con fiori di mille colori e unghie smaltate di nero, questo ragazzo nato e cresciuto a Val di Campo di Vetulonia, nel grossetano, racchiude in sé molte interessanti estremità pop difficilmente approdate insieme, negli ultimi anni, alle orecchie degli ascoltatori di musica italiana. Lucio Corsi è dotato di una rara autenticità naif che sembra conoscere le regole selvagge e intime dell’arte più di quelle codificate e alla moda del gioco dell’artista.

Figlio di una ristoratrice con la passione della pittura e di un artigiano che gli trasmette l’amore per i motori, a 11 anni Lucio scrive la sua prima canzone: racconta di un fuoristrada e nel testo utilizza imprevedibilmente il termine “prosa”. Seguiranno un buffo Inno alle larve intorno ai 13 anni e, nei primi anni del liceo, una smodata passione per i Genesis e il prog – anche italiano – che lo farà lavorare per un intero anno, in veste di chitarrista delle sua prima band, alla composizione di un unico brano strumentale di oltre 15 minuti.
Sono gli anni della prima formazione musicale, il momento in cui i saltuari ascolti famigliari di Beatles, Bob Dylan, Neil Young e Nick Drake si arricchiscono con la passione per il glam rock, per il David Bowie luccicante, per Marc Bolan e Iggy Pop fino all’estasi improvvisa su un riff di Keith Richards.

Si ha l’impressione, parlando con lui, che non abbia familiarità con un tempo senza musica e soprattutto un arco del tempo consapevole in cui non fosse vivo il desiderio di comporne. Più dell’amore per Piero Ciampi e Luigi Tenco – che ormai giacciono inermi, spesso senza motivo, sulla bocca di tutta la nuova classe di autori di musica pop italiana – e persino più dell’amore per il genio incompreso di Flavio Giurato, di Lucio Corsi colpiscono la profondità dello sguardo e l’approccio impavido, la determinazione. Arrivato a Milano con il preciso intento di suonare e un altrettanto preciso disinteresse nei confronti del “giro giusto” che Bugo cantava qualche anno fa, Lucio Corsi suona per strada per un anno intero, prenotando piccoli spazi per la sosta e imparando quotidianamente l’arte dell’intrattenimento del pubblico, anche di quello inizialmente disinteressato ad ascoltare, un po’ scherzando e un po’ no dice: «Ho imparato che il tempo morto non può esistere se sei davanti a qualcuno che nella maggior parte dei casi nemmeno era lì per te e ho scoperto che molta gente, ogni giorno, vuole fare gli auguri a qualcuno e perché tu gli canti “Tanti auguri” è disposta a pagarti anche 5 euro».

La scrittura del primo lavoro di Lucio Corsi, seguito dalle cure della produzione di Federico Dragogna, è il risultato di tutta la giovane curiosità di quest’artista: da un lato le origini, il saldo legame con la terra (e con la Terra) con uno sguardo selvatico sul mondo che si declina nelle linee più folk e dall’altro il balzo verso la Luna, la fluttuante capriola in un cielo stellato popolato da animali colorati che non sono più soltanto quelli della nostra realtà, ma che ci appaiono fiabeschi, alla stregua dell’Effervescing Elephant di cui cantava Syd Barrett. Allo stesso modo, dunque, da un lato abbiamo le radici cantautorali, portatrici di continue storie umane, e dall’altro le fascinazioni interstellari e celesti di un mondo onirico che si presenta di continuo con il ricorrente ricorso a figure aliene, inevitabili figlie degli infiniti ascolti di Bowie & co. «Vorrei che tutto il glam rock entrasse sempre più nelle mie canzoni, da artisti come Bowie ho imparato la lezione più importante: mai fermarsi alla via che funziona, provare sempre a vedere cosa c’è dopo, se ce n’è un’altra bella da percorrere. Immagino che riuscire in questo sia incredibilmente difficile». Intanto, da queste canzoni emerge un vero giovane autore di talento in grado di esplorare con una profondità che sa esser lieve l’intimità e le contrapposizioni tra mondi lontani: realtà e sogno, umano e alieno, vita con le mani che affondano nella terra e vita di chi sulla Terra soltanto passeggia e sogna di continuo di fare un salto su un altro pianeta.