Per l’anniversario della scomparsa di Jannacci, riascoltiamo il suo primo album, “La Milano di Enzo Jannacci”
Questo pezzo è uscito originariamente su Rockit il 29/3/2017
“Quello è il disco di un mascalzone, forse ci sono dentro le mie migliori canzoni perché avevo un altro slancio e una sensibilità da ragazzo che non ho più.”
Enzo Jannacci
“”E l’era tardi” è forse la canzone più struggente che abbia mai ascoltato. Davanti a questi semplici versi di un uomo che in difficoltà economiche si rivolge a quello che credeva un amico, scompare tutta quella montagna di impegno ipocrita messo in piazza dai miliardari del rock che hanno cantato lagne sulla guerra, sulla fame nel mondo, su Mandela, sui bambini sfruttati e sulle Miss Sarajevo. Se Jannacci fosse nato a Roma o altrove sarebbe stato imposto a livello nazionale e invece è un buon esempio di come Milano spesso non sappia tesaurizzare i propri beni.”
Tommaso Labranca
Esattamente nelle ore in cui mia madre sta nascendo in un ospedale di Milano, Enzo Jannacci si sta esibendo al primo “Festival italiano di rock’n’roll” al Palazzo del Ghiaccio; da pochi mesi suona con i Rock Boys, la band di un giovanissimo Adriano Celentano che, dopo quella performance, firmerà un contratto con la casa discografica Music.
La mia storia filiale con Enzo Jannacci forse inizia proprio al centro del maggio milanese del 1957 per consolidarsi poi, per logica naturale, molto più in là nel tempo. Come in ogni faccenda amorosa che si rispetti, ritrovarne lucidamente le radici è molto complicato ma assume la forma di un’operazione dai caratteri intimi epici, ancestrali, magici.
Per raccontare il mio Enzo Jannacci devo passare da un disco che, prima ancora di molti altri capolavori che usciranno anni dopo, mi si presenta in una fase di incoscienza assoluta, con una forma di violenza dolce, primigenia e identificabile ovviamente solo a posteriori.Sono qui
L’album in questione è il primo LP in studio della discografia di Jannacci, si intitola “La Milano di Enzo Jannacci”, così, semplicemente. Esce nel 1964 per la Jolly e verrà ristampato in edizione meno pregiata dalla Joker nel 1971. Quando incontro quest’album non so ancora cosa siano i dischi, né effettivamente cosa sia la musica e non ho ovviamente idea di chi sia Enzo Jannacci: conosco però la sua lingua, o meglio, la identifico come la mia stessa lingua famigliare della risata e della rabbia. Sono una bambina, i miei nonni si esprimono abitualmente in dialetto, i miei genitori esclusivamente in italiano – ma mio padre conosce il dialetto e interloquisce con il suo mondo delle origini (il paese, le sue radici) in quel linguaggio delle estremità emotive. Lo capisco a un livello epidermico, sentimentale, ben prima che con la ragione: sono parole, espressioni che si usano per litigare, per fare pace, si usano per l’ironia o per dire una cosa un po’ più sconcia delle altre. Mia madre ogni tanto cammina per casa sistemando oggetti, guida, cucina, mi parla e improvvisamente se ne esce dal nulla cantando frasi come: “T’ho compraa i calzett de seda cun la riga nera…” e poi urla “neeeeera!” sguaiatamente e ride.
Trovo parecchio strano che lei – che il dialetto non lo parla mai – lo canti così bene e con una frequenza che suggerisce intimità con frasi dialettali che io non conosco. Trovo buffo che intoni con malinconia e interpretazione drammatica versi a me, bambina che va alla scuola materna, ignoti e fumosi come: “Quel che sunt drè a cuntav l’è ona storia vera…” e poi continui, a ritmo, alla prima curva a sinistra o infilandomi una felpa.
Prima di scoprire che la Luna è un satellite naturale del pianeta Terra, io ho saputo che “la luna è una lampadina attaccata al plafone e le stelle sembrano limoni tirati nell’acqua” e anche questo – sebbene Jannacci, nel disco, canti ogni strofa prima recitandola in italiano e poi interpretandola in dialetto secondo una bizzarra formula particolarmente riuscita – l’ho saputo in dialetto, così: “la luna, l’è una lampadina…”.
Crescendo scopro che tutte queste parole, tutto questo dialetto così magnificamente interpretato da mia madre nei corridoi di casa, nei viaggi, nella nostra vita, davanti a me che sto imparando i suoni, le lingue e i modi di dire qualcosa, non sono altro che parti o versi di canzoni. La scoperta si accompagna a scostanza, sguardo distante, attratto disinteresse, percezione di genialità che avrei dovuto un giorno esplorare.
“La Milano di Enzo Jannacci”, con la sua copertina nera e rossa elegantissima, diremmo oggi “minimale” e senz’altro bellissima, è tra i dischi di famiglia, c’è scritto sul retro il nome di mia madre scolpito a bic su tutti i vinili di Jannacci che abbiamo. Guardo quel disco, leggo quei titoli – la luna che è una lampadina, le scarpe da tennis di un barbone, e le calze di seta con la riga nera – e mi sento a casa, nella culla più calda dell’infanzia, di qualcosa che è già ricordo e, a modo suo, embrione di nostalgia naturale. Passano molti anni e di quel disco non ho ricordi di nessun tipo per diverso tempo, sono stati rimossi dal grande frullatore adolescenziale degli stimoli iperattivi che arrivano da ogni dove – famiglia inclusa – ma che lasciano fisiologicamente per un attimo le radici in lontananza, pronte solitamente a essere riscoperte ai primi scampoli di maturità.
Anni dopo percepisco il mio primo stipendio e il giorno stesso mi ritrovo al luna park: la più grande fiera del disco d’Italia. Sono gli anni della scoperta di Milano, delle gite in periferia, delle letture sfrenate e un po’ ossessive di qualunque libro contenga quella parola familiare di sei lettere nel titolo, anni in cui vivo la città con una libertà totale e assoluta, girando di notte con una macchina fotografica e scoprendo di settimana in settimana nuovi piani dei palazzi in crescita nel cantiere del quartiere Garibaldi.
Amo tutto, candidamente, ingenuamente, anche quello che sembra che a chi mi è intorno faccia schifo, provo a trascinare qualcuno in questo amore non decifrabile e non comprendo come si possano non amare fisicamente, con fremiti assoluti, sensi spalancati, le ossa misteriose della città di Milano.
In quegli anni percepisco la nascita di un legame con la città di mia madre – che non è di sangue anche la mia solo per 39 km di distanza – predestinato in qualche sortilegio biblico a continuare per sempre.
E Jannacci? Jannacci è lì che mi aspetta, con quel disco rosso e nero alla prima bancarella di Vinilmania, il primo disco che acquisto con i primi soldi davvero miei. Prima edizione che porta sul retro – come se non bastasse – un piccolo ma grandioso racconto firmato da Luciano Bianciardi, l’autore che sto leggendo nelle mie notti senza sonno di studentessa e che racconta qua il suo primo incontro con il cantautore.
Quando compro il disco non ho ricordi di averlo mai avuto a casa e, per ragioni misteriose, non li ho fino a quando non metto il disco sul piatto e, oltre ai titoli, la mia memoria emotiva riconosce l’ordine delle canzoni, come succedeva con quei dischi ascoltati tantissimo nell’epoca della riproduzione ordinata delle tracce, qualcosa di parzialmente scomparso con il CD e morto definitivamente con gli mp3.
Da adulta, l’esperienza di “La Milano di Enzo Jannacci” si amplia, è totale, corrisponde cioè al riconoscimento assoluto di una grammatica antica, della formazione, quello che la Ginzburg chiama Lessico Familiare, la lingua comune incosciente dei legami d’amore.
Dietro questo lessico, però, c’è un disco, un album eccezionale che la critica, in modo diffuso, fatica ancora a ritenere superato all’interno della discografia di Jannacci o che, nelle ipotesi peggiori, è ritenuto semplicemente un lavoro centrale nella storia di una canzone in dialetto che però supera la propria stessa definizione, incarnando cioè uno degli esempi più alti di canzone italiana. Perché? Perché “La Milano di Enzo Jannacci” riesce a prendere la lingua che dicevo prima essere quella delle estremità emotive, quella delle liti e delle pacificazioni, del soliloquio sentimentale ma pure della rabbia e, specialmente, dell’ironia e della risata, e a portarla su un piano universale, sottolineando da una parte, attraverso i personaggi protagonisti dei brani, un numero sconvolgente e commovente di localismi emotivi, di milanesità assolute, di Lombardia iperuranica eppure terrena e, dall’altra, il sentimento dell’uomo qualunque elevato a personaggio, cioè l’universale emotivo, quotidiano, privato, intimo e sociale.
I personaggi della Milano di Jannacci sono ritratti in una dimensione estremamente connotata, fatta di vie, di quartieri, di modi confidenziali di utilizzare i nomi, la lingua, di relazionarsi tra loro, con le loro vite, le loro combinazioni di amori, desideri, tristezze, slanci, sono esseri molto precisi della ragnatela cittadina eppure riescono a trasferire – magari sì, aiutati da una piccola traduzione – su scala nazionale, gli umori malinconici, tristi, comici, ironici, non solo della loro personalità narrativa ma pure della personalità narrativa della città stessa. Ci sono qui dentro alcune musiche di Fiorenzo Carpi, pezzi firmati da Dario Fo, da Franco Fortini, molti già pubblicati su 45 giri usciti tra il ’63 e il ’64 o già usciti su disco nell’esordio di Jannacci in “Milanin Milanon”: eppure questo disco ha la struttura solida dell’LP che manca a molti esordi dell’epoca, è una carta d’identità circolare di Jannacci, una lettera di presentazione che lui consegna all’ascoltatore che a sua volta si ritrova negli stessi estremi dell’identikit, ne riconosce il linguaggio, le trame del suo tempo o di un tempo che ci ha cromosomicamente raggiunti.
Si affaccia in questo disco già in modo netto tutta la poetica di Enzo Jannacci, fatta esclusione per rari casi come “Quella cosa in Lombardia” o “Ma mì” – due pezzi grandiosi e quasi estranei al resto del disco: nelle canzoni i temi risultano tutti inglobati in un’unica fluida narrazione e quindi la canzone d’amore diventa in un attimo un racconto comico, versi malinconici lasciano velocemente spazio all’ironia, la storia di un amore tra un uomo e una prostituta da ironica canzonetta si trasforma in una microinvettiva sociale – come d’altronde accade nella famosa ‘canzone delle scarpe da tennis’. Jannacci, insomma, dimostra agli esordi quel che non farà che essere per sempre, e sempre di più: il serissimo eppure ‘schizo’ mago dei registri mescolati.
Quattro anni fa ho abbandonato ciò che stavo facendo per raggiungere la Basilica di Sant’Ambrogio, a Milano, con un anticipo che mi è inconsueto, per riuscire a entrare in chiesa ed assistere al funerale di Enzo Jannacci. Mi sono ritrovata tra le mani il foglio con la messa scritta da seguire. Una funzione perlopiù composta da stralci di testi dell’autore stesso.
Seduta sulla panca della chiesa, in una dimensione straniante e non consueta, mi sono ritrovata a declamare al vento, nella coralità davvero emotiva del momento, i versi centrali di “Sfiorisci bel fiore” e, dopo pochi minuti, altri versi – data l’occasione imprescindibili – di “Vengo anch’io, no tu no”.
Ecco. Lì, in quella chiesa, in un giorno di primavera come questo in cui sto scrivendo, ho visto consumarsi l’estremo esempio dell’esperimento Jannacci, il suo mix di registri che non casualmente si era prima di lui, prima di Giorgio Gaber e di Dario Fo, soliti concedere solo al teatro: seduti nella basilica in cui Enzo Jannacci aveva sposato sua moglie Giuliana decenni prima, si mescolavano improvvisamente preghiere, canzoni, un fondo di malinconia e perdita assolute ma pure una velata ironia grata, una comicità incarnata da tutti noi presenti, lì, l’ovvia commozione e, nel frattempo, i canoni di un rito uguale da secoli.
Perché ascoltare un disco in dialetto, oggi? Un album uscito 53 anni fa, un disco che ha tutta l’aria di poter appartenere sono a qualcuno – e certo, certo, potrebbe esserci il rischio che sia davvero così? Perché prendere le traduzioni di questi testi? Perché sognare la stazione di Rogoredo anche da scenari canonicamente migliori?
Per tutto quello che lì dentro apre le porte a un mondo intimo che, in potenza, è di chiunque, livella, e perché se voglio ridere sonoramente per i fatti miei ma senza divertirmi – non so se mi capite – se voglio essere riscaldata da una speciale grana di commozione non c’è stand up comedian che tenga ma, ancora adesso, c’è questo disco.