Lucio Corsi è uno sghembo e talentuosissimo animaletto da palco, un minuscolo visionario pieno di progetti, valige di idee, tempeste continue di creatività. Lo abbiamo incontrato per parlare del suo “Bestiario Musicale”.
Si deve essere leggeri come l’uccello che vola, e non come la piuma.
(Paul Valéry)
La prima cosa che mi ha fatto impazzire di Lucio Corsi, ormai alcuni anni fa, è stato il suo look: stivaletti e capelli lunghi, androginia naturale a-là-Spiders from Mars portata con disinvoltura assoluta, in totale contrasto con tutti i cantautori-con-look-da-cantautore italiano che siamo abituati a vedere in giro. Personalità da vendere e poco più di 20 anni.
Poi, conoscendolo, è stato chiaro che quell’apparenza non era solo tale e che quel carisma, già di per sé assai raro, nascondeva la grana di musicista ancora più raro, uno sghembo e talentuosissimo animaletto da palco e, ancor più importante, da scrittura di musica pop. Un minuscolo visionario pieno di progetti, valige di idee, tempeste continue di creatività e della migliore testardaggine.
Lo incontro in un giorno di sole, a Milano, mentre la primavera esplode e con lei un importante annuncio per Lucio che, a partire dalla data di Firenze, aprirà i live dell’imminente tour dei Baustelle. Abbiamo parlato di questa grande news e del suo ultimo lavoro: “Bestiario musicale”.
L’ultima volta che chiacchierato del tuo lavoro doveva ancora uscire Altalena boy, poi si sono accorti di te in tanti e parlando di musica italiana appena nata il tuo nome ricorreva anche tra i più scettici nei confronti del nuovo cantautorato. Ora vai in tour con i Baustelle, di certo il più importante e affermato gruppo pop in circolazione. Un caso? Ovviamente no, ma ci racconti com’è successo?
Guarda, sono felicissimo, anzi, qualcosa di più: diciamo pure commosso. Con i Baustelle ci siamo conosciuti tempo fa, Francesco veniva a mangiare da anni nel ristorante di mia nonna in Maremma e quando anni dopo l’ho conosciuto per vie musicali, gli ho ricordato che in realtà ci eravamo già visti là in campagna. Un ridere che non ti dico. Poi, be’, bazzichiamo molti posti comuni, in Toscana. Abbiamo suonato un mio pezzo insieme nel castello di Castiglion della Pescaia, quella sera io suonavo e lui faceva un reading del suo libro. Mi ha proposto di fare un pezzo insieme, io ero onorato e pensavo che avremmo fatto, chessò, Piero Ciampi, Lucio Dalla… invece no! Lui ha voluto fare la mia “Altalena Boy” ed è stato molto emozionante, mi ha anche aiutato a migliorarla, sistemando un singolare erroneamente toscanizzato e trasformandolo, correttamente, nel plurale in italiano. Da allora la canto come mi ha insegnato.
Se penso al fatto che mi abbiano chiesto di aprire i loro concerti mi sembra un onore vero, mi immagino io lì con la chitarra magari con dietro il sipario, su palchi su cui poco tempo fa ha camminato e suonato Paolo Conte, per dire… be’, non vedo l’ora. E poi “L’amore e la violenza” mi piace tanto, anche questo conta molto.
Il tuo ultimo disco si chiama “Bestiario musicale” ed è un vero e proprio bestiario musicato, con otto storie di cui si fanno portavoci-protagonisti-metafore otto animali. Il disco non è piaciuto solo ai Baustelle e sta riscuotendo un bel consenso generale. Qual è stata la sua genesi?
In qualche modo nasce da un tormento, era un anno che stavo lavorando a nove, dieci canzoni che stavo provando ad arrangiare in vari modi. Stavamo anche cercando chi potesse eventualmente produrle però volevo fare anche da me e non trovavo il verso giusto per esprimermi. Non ero soddisfatto, da un anno stavo in Maremma, nel podere dei miei che di solito affittiamo ma quest’anno era rimasto vuoto. Quest’estate, lì a Vetulonia, mi sono fatto un piccolo studio in questa casa vuota. Volevo provare a parlare di qualcosa che conoscessi bene, ero stanco di sentire sempre nella musica italiana le stesse storie, i soliti argomenti soprattutto trattati con le solite parole italiane: per me la cosa più bella di ogni forma espressiva, che sia disegno, pittura, musica, è la libertà di parlare di qualsiasi cosa in qualsiasi modo. Mi sembra che, al di là di tutta una serie di temi, se vogliamo davvero generazionali, ci sia un problema con l’utilizzo della parola. Si usano sempre le stesse parole. Volevo stare lontanissimo da questo modo di scrivere.
E come sei finito a parlare di animali? In qualche modo è un immaginario di cui ci avevi già mostrato qualcosa in Vetulionia/Dakar, ma qua mi pare si vada oltre: in qualche modo vedo una dimensione più approfondita, letteraria, più alta, che si transla poi anche nel lavoro sulle musiche.
Gli animali sono casa, sono la cosa che conosco meglio e anche la più fantasiosa possibile. Nel mio Bestiario sono anche metafore, ma comunque mi piace sempre pensare di lasciare un po’ il campo libero a chiunque di trovare il proprio significato nei pezzi. Io quando ascolto musica e ascolto le storie delle canzoni amo trovarci dentro cose a cui probabilmente l’autore non ha pensato perché ne ha pensate altre.
Per il Bestiario volevo provare a fare una cosa da solo, sono stato spronato da molti miei amici a lasciare stare l’idea del produttore e iniziare a fare una cosa tutta da me. Solo dopo aver pensato agli animali ho iniziato a valutare l’idea di un concept, qualcosa che avevo sempre accantonato prima, visto che pensavo che ogni canzone dovesse vivere per sé, con un suo mondo. In questo caso però ero attratto dall’idea di provare a concentrarmi su questo tutto da solo, proprio come in un esercizio.
Hai letto e studiato i bestiari? Penso a quello di Borges, quello di Pazienza…
Mi affascinavano molto, da sempre. Avevo letto il bestiario di Andrea Pazienza, sì e poi ci sono entrato dentro e ho approfondito molto. Ho scelto gli otto animali, cominciando dalla civetta, e ho iniziato a segnarmi tutte le loro caratteristiche: dove vivevano, come vivevano il bosco e le loro interazioni con gli altri animali. In questo mi hanno indirizzato tanti libri ma anche tante immagini: per esempio c’è la copertina di un poema persiano che si intitola “Il verbo degli uccelli” in cui c’è un’immagine in cui l’upupa parla agli altri uccelli. L’upupa è un po’ la regina del disco, anche grazie all’ispirazione avuta da questo libro.
Da me, il 90% delle volte, gli animali appaiono di notte, io sono abituato a vederli tornando a casa: lepri – quasi sempre ne vedi una che ti attraversa la strada – istrici, volpi… di tutto. Tutti si concedono per pochi secondi, come apparizioni brevi che se ne vanno subito via e io nel disco volevo proprio restituire questo senso d’apparizione velocissima.
Come sei passato dalla raccolta di informazioni alla realizzazione di un album così dettagliato, specifico e preciso nel lavoro sul testo quanto nell’arrangiamento coeso – come il concept richiede?
Di solito lavoravo così: partivo col piano o con la chitarra, prendevo tutto quello che mi ero scritto sull’animale e lo mettevo davanti a me, le informazioni che mi stimolavano di più le scrivevo più grandi per vederle subito e mi mettevo a suonare uno o l’altro strumento in base all’animale, insomma in base a cosa mi richiamava di più istantaneamente. Con la civetta suonavo piano la chitarra, che è più oscura, mentre la volpe è più giocherellona, e quindi è nata dal mio pianoforte. Diciamo che partivo cercando proprio dei temi: ogni animale nel disco ha un piccolo tema suo. Questa cosa per me è fantastica, in questo senso mi ha ispirato tantissimo “Pierino e il Lupo”. Se ci penso, questo dei temi è un aspetto che avrei voluto sviluppare ancora di più e magari tra alcuni anni lo farò, magari scriverò un altro bestiario e questo aspetto lo approfondirò ancora meglio, tanto gli animali non sono solo 8 e davvero mi piacerebbe associare ancora di più l’animale X a un suono X, ancora più caratterizzante della sua personalità e della sua fisicità.
In questo senso il disco, che è arrangiato in modo contenuto ma insieme capace di barocchismi e di voli alti, mi ha fatto pensare a una sua versione più orchestrata, quasi sinfonica. Ora tu mi parli di temi… se domani potessi lavorare con un’orchestra potresti fare questa cosa!
Sì, be’, sarebbe fantastico anzi, spero davvero di poterlo fare. Mi viene in mente anche che non sappiamo come portare live questo disco perché, in effetti, voce e chitarra non potrebbero rendere da sole, il Bestiario meriterebbe piccoli spazi per essere ascoltato oltre i rumori dei banconi dei bar, lo vedremo… Di sicuro, live, mi piacerebbe aggiungere anche l’esecuzione di certi pezzi italiani con animali protagonisti: “Il gorilla” adattato da De André, “Il merlo” di Piero Ciampi. Magari sarà anche l’occasione per conoscere meglio Branduardi, che non ho mai approfondito.
Nella canzone italiana, infatti, esiste questo tema metaforico dell’animale, spesso stilizzato in modo favoleggiante più per il bambino. Penso a certi lavori di Endrigo e di Lauzi… Tu parli agli adulti, hai messo in piedi canzoni molto strutturate, dove il filastrocchesco e la favola restano protagonisti più come immaginari che come spazi visivi del significato. Anche musicalmente parliamo di brani molto più complessi. In quanto hai fatto tutto questo?
Una settimana.
Serio?
Sì, te lo giuro, una settimana
Giorno e notte?
E certo! Stavo a casa. Per non dimenticarmi la canzone registravo subito: cercavo gli accordi, poi iniziavo a trovare un inizio di testo, poi da lì continuavo e alla fine è venuto tutto molto liscio; una volta finite musica e parole registravo subito chitarra e base e poi iniziavo a lavorare sull’arrangiamento. Con la Civetta ho trovato il modo per aggiungere tutto: il contrabbasso per esempio o i rumori della natura registrati in presa diretta – sono andato di notte, nel bosco, a registrare i grilli. Da quel modello di arrangiamento sono partito per fare anche gli altri. Poi, più avanti, ci abbiamo registrato il pianoforte vero e il contrabbasso, abbiamo messo il vibrafono reale. Voci e chitarre, in ogni caso, sono le originali: cantavo piano, di notte, nel podere, a bassa voce per non svegliare i miei nella casa a fianco che dormivano. Questa cosa mi ha insegnato a cantare in un modo proprio diverso. Prima urlavo di più.
Parliamo degli strumenti. Mi dicevi che ieri hai comprato una nuova chitarra – di cui ora voglio sapere tutto ma, oltre a questo, so che sei un grande fan della corrispondenza tra gli strumenti e le canzoni che devono generare, proprio come se la storia dei primi fosse determinante nella riuscita delle seconde.
Assolutamente. Nel Bestiario, per esempio, tutto è stato fatto con gli strumenti adatti: ho usato un vecchio pianoforte di mia nonna che viveva in quella casa di campagna, una specie di pianoforte da saloon, quello disegnato poi da mia madre in copertina: lì mia nonna mi insegnava le prime cose al piano. Quello strumento vive da anni in mezzo agli animali e mi sembra naturale che un pianoforte di campagna sia adatto a scrivere canzoni di campagna. Comunque penso che lo strumento faccia tutto, mi piace anche credere di non aver scritto ancora canzoni d’amore perché non ho ancora trovato uno strumento innamorato di un altro.
Non so, ora magari scoprirò che questa nuova chitarra è quella giusta: se scrivo canzoni d’amore e vengono bene magari vuol dire che è stata innamorata, bo’, di una tastiera! Pensa che è stata la chitarra di Dodi Battaglia! Viene dal 1974, ne ha viste di cose.
Quest’idea che hai di musica così pura in cui nulla è impossibile, tutto è esperimento, esercizio, libertà, ha acceso in me molto tempo fa una lampadina: il tuo approccio mi fa molto pensare a quello che, originariamente, vedevo in uno come Morgan – e ora mi è anche venuta in mente la sua “Animali famigliari”.
Sai che questa cosa mi fa un sacco piacere, per me lui è stato incredibile. Il suo è stato un lavoro serio ma insieme leggero, pop, molto bello. Io non riesco a non fare quello che mi va, sto male, se penso di fare una cosa che magari potrebbe acchiappare più gente, ma che non è quella che mi convince e fa felice me io non trovo più senso nel fare musica, anche perché uno poi cosa fa? Fa musica pensando di andare incontro alle mode ma poi magari nessuno è interessato a lui e allora soffre solo il doppio. Io mi dico: se deve andare male che vada male con qualcosa di cui sono felice e convinto almeno io. Qualcosa che ho fatto con gioia, con desiderio. Poi la cosa bella in questo lungo percorso della musica è anche cambiare, è un percorso lungo, devi fare quello che ti va, tutto quello che puoi.
Si sente che nella tua musica non c’è altro pensiero oltre alla musica. So che ne ascolti molta. Cosa ti ha insegnato di più, negli ultimi tempi?
Ho ascoltato tantissimo Paolo Conte, per me cantautore paesaggistico assoluto, mi piace come descrive la campagna, penso a “La fisarmonica di Stradella”, penso a versi come “abbaia la campagna / c’è una luna in fondo al blu”: mi fa impazzire il modo in cui non solo usa le parole ma le mette insieme. Per me è davvero scuola, insegna a essere sempre ironico ma mai meno profondo. L’ho ascoltato fino alla malattia: lo avevo sempre sentito e apprezzato ma a un certo punto ho iniziato a scoprire tutte le storie delle sue canzoni, riascoltandolo ho capito che raccontava vicende incredibili, mentre prima non le percepivo che confusamente. Mi piace anche il modo in cui dal primo periodo più legato ai racconti, è passato a cose più liriche, magiche, penso ad “Aguaplano”…
Come ascolti musica?
Molta autoradio in macchina, io amo le macchine, ora ne ho una nuova, sportiva, sento l’asfalto, mi piace tanto. Ascolto musica lì. E poi vinili, ereditati dai miei che non so come li avessero, visto che non sono grandi appassionati di musica. Ho “Sticky Fingers” nell’edizione con la cerniera sulla patta di Mick Jagger che si può abbassare ma che rovina il disco. Ogni tanto però uno mica resiste… e l’abbassa! (ride) Qua a Milano mi tocca sentirla dal computer… in ogni caso sai, ascolto anche Fabri Fibra, per dire.
Anche tu matto di Mr. Simpatia?
Sì, disco pazzesco, folle. Non ha chiuso mai il rubinetto. Immagino abbia rotto i rapporti con tutti… Comunque che libertà, è un’isprazione sempre questa libertà.
Baustelle e tour a parte, cosa succede subito dopo il Bestiario?
Ho un disco quasi pronto che mi piacerebbe chiamare “Disco Pomeriggio”, pensato e realizzato tutto di pomeriggio perché è quella la fascia della giornata in cui vivo e lavoro di più. Il titolo poi mi ricorda proprio l’idea di Discoteca pomeriggio anche se non c’è nulla di disco. Ci saranno anche canzoni a cui stavo lavorando prima di infilarmi nel Bestiario, cose che faccio dal vivo, spero di poterlo far uscire molto presto, ho già pezzi per il disco ancora successivo.
Inarrestabile. Racconta.
Sto pensando a un universo inventato di cui ho già il nome, tutto fatto di personaggi con storie molto specifiche e magiche: cowboy, pantere, il sole, donne in crociera sul Nilo, benzinai cosmici… Lo immagino come un musical. Questa cosa viene dal fatto che mi sono messo ad ascoltare l’hip hop, oltre a Paolo Conte: Kanye West e Tyler, The Creator in questo senso sono stati una grande ispirazione relativamente all’idea di strutturare canzoni sdoppiandole, cambiando atmosfere musicali al loro interno. Lo fanno loro, perché noi in Italia non possiamo provare a farlo? A me questa idea gasa moltissimo. In questo disco non voglio fare la scelta stupida di semplificare i testi e rendere complesse le musiche ma, anzi, voglio lavorarci un anno o due sopra, anche sui testi. Tengo davvero tantissimo al lavoro con le parole.
Scrivi tantissimo, hai 23 anni, come ti relazioni all’idea stessa della scrittura, all’ispirazione, al tempo dedicato a questo lavoro?
Guarda, mio padre faceva borse e cinture di pelle, mica stava lì ad aspettare che gli venisse fuori l’ispirazione: lavorava! Io faccio lo stesso, sto sul foglio, provo, mi ci metto. Se uno vuole che questo sia il suo lavoro lo deve trattare come tale. Poi, se arriva l’ispirazione, meglio… sei già col foglio davanti! Ho scoperto di recente che un grande che la pensa così è Capossela. Secondo me le cose belle sono sempre frutto di gran lavoro.