Giulia Cavaliere e i quattro dischi fondamentali di Gino Paoli, spiegati uno per uno.
“La mia idea era che qualsiasi atto fisico d’amore, in qualsiasi posto lo si faccia, squarcia il tetto e ti fa vedere il cielo. Si tratta di un momento in cui tu non sei più niente e sei tutto il mondo, sei il tutto e sei il niente, qualcosa che riesce a farti uscire dalla materia in cui sei, dalle tue scarpe, dalla tua giacca, dalle tue mutande, e ti proietta in una dimensione superiore. Questo era il mio itinerario“
Gino Paoli a proposito di Il cielo in una stanza
“He is certainly an icon of that romantic-Italia we all have in mind“
Uno sconosciuto, da qualche parte del mondo, sul web
Metti una domenica pomeriggio d’autunno e un cinema genovese: siamo nel 1956. Due tizi di nome Gino Paoli e Luigi Tenco sono incollati allo schermo davanti al film “Il seme della violenza” di Richard Brooks, il racconto cinematografico di storie di delinquenza nelle scuole degli Stati Uniti. Nella colonna sonora, tra le altre, c’è una canzone destinata a cambiare la percezione storica europea della musica degli USA: “Rock around the clock” di Bill Haley. Paoli e Tenco restano sconcertati, immobili sulle poltrone fredde davanti al grande nero che anticipa i titoli di testa e fa partire immediatamente il rock’n’roll, hanno la sensazione di trovarsi di fronte a suoni che avevano sempre aspettato, stanno sperimentando finalmente un senso di appartenenza sperato a lungo, stanno ritrovando i propri tormenti al centro di una musica che fino ad allora non avevano incontrato.
Una piccola digressione di partenza, essenziale per comprendere quanto le radici di una storia tutta italiana com’è quella del cantautorato italiano e di uno dei suoi capostipiti e portavoce assoluti, non risieda solo nella storia, tutta francese, degli chansonnier quanto nel sogno americano dell’ondeggiare e dondolarsi, del bacino morbido e dei ritmi ossessivi. Sembra strano a dirsi ma non lo è poi tanto se si pensa che i primi dischi che Gino Paoli ascolta per propria volontà e con immenso sgomento e disappunto dei propri familiari, sono i V-disc, Victory disc, ovvero 78 giri grandi e pesanti contenenti 4 brani, due per lato, e che portano scritta sull’etichetta la propria ragion d’essere: creati per il divertimento delle forze armate, esclusivamente per loro. Proprio grazie ai Victory disc degli americani che arrivano a liberare l’Italia dal nazifascismo, Gino Paoli scopre il jazz di cui si innamora, le prime note di musica degli USA: Louis Armstrong, Nat “King” Cole e soprattutto Billie Holiday, destinata a diventare la sua cantante preferita, voce che gli insegnerà a prendere dimestichezza con la parola cantata e con i palchi. La definisce “la mia vera maestra” e anni dopo le dedica “Signora giorno” (Lady Day, com’era il suo soprannome). Il primo V-disc, Gino lo scambia con una cipolla dell’orto di guerra di famiglia, è un cibo fresco che il soldato americano non mangia da tempo, abituato com’è a uno zaino pieno di cibo in scatolette: una cipolla di un orto povero per un disco di Billie Holiday, mi piace pensare che il cantautorato italiano, in una sua forma unica destinata a diventare paradigma e stilema eterno di un genere – se siete qua lo sapete bene – ancora molto praticato, sia nato un po’ dentro quest’azione insieme così metaforica e pratica e reale.
Di seguito trovate qualche parola su alcuni dischi italiani imperdibili, scritti da quello che forse avete conosciuto per qualche canzone estiva e speciale, tramandata alle vostre orecchie da alcune delle ultime musicassette su cui è stata incisa o copiata, un nome che avete magari incontrato per faccende di SIAE, tasse, vitalizi. Sono cose che smettono di avere peso in queste righe, cose da mettere un attimo in un angolo, perché uno dei motivi per cui la canzone italiana esiste come la pratichiamo oggi è stata l’incisione di queste canzoni che mentre scrivo girano una dopo l’altra sul piatto del mio giradischi, dentro dischi in molti casi spiacevolmente e assurdamente non disponibili in ristampe su cd. Cercateli, in qualche modo, incontrateli come fossero i vostri V-disc del 2000 passato già da un po’.
1. GINO PAOLI (1961)
Il primo disco di Paoli è, come si confà al tempo, una raccolta di singoli già usciti precedentemente e ora pubblicati da Ricordi. A inventarsi i dischi di musica leggera, in un certo modo, è proprio Nanni Ricordi che allarga al pop lo spettro delle pubblicazioni di un storico marchio editoriale di musica classica. I cantautori sono il cavallo su cui, insieme a Mariano Rapetti, capo delle edizioni e padre di Giulio (Mogol) decide di puntare. I pezzi presenti nell’album in questione includono quasi tutte le più grandi hit del cantautore, solo alcune tra le altre: “La gatta”, “Senza fine”, “Sassi”, “Il cielo in una stanza”. Si tratta i brani destinati a entrare nell’immaginario collettivo e a non uscirne mai, canzoni che si infileranno nei juke box estivi di un mondo che ancora deve arrivare, brani che definiranno un tempo italiano preciso – gli anni sessanta – pur essendone nate davvero agli albori, pezzi che raccontano di stagioni e di precise azioni, destinati dalla nascita a diventarne gli emblemi in forma canzone.
“La gatta” è una canzone scritta con il proposito di raccontare qualcosa di malinconico, chiusure di vecchie vite e aperture di vite nuove ma pure, saldamente, modi di concepire l’esistenza. La canzone, inizialmente non particolarmente apprezzata, diventa dopo poco una hit e resta tale nei decenni a venire, traformandosi nella mente e nel canticchiare di molti, in una canzonetta simpatica su una gatta e una vecchia. La vecchia non è una signora anziana ma una vecchia soffitta (vicino al mare con una finestra…) ma tanti di noi non pensano all’enjambement di Paoli, che aveva messo vecchia alla fine di un verso e soffitta all’inizio del successivo, e ridanno così vita alla canzone, le suggeriscono significati nuovi, la trasformano e la rendono una canzone per bambini (bambini che infatti, di solito, ne vanno matti).
“Il cielo in una stanza”, di contro, non viene proprio capita: Alfredo Rossi delle edizioni Ariston manda a casa Paoli facendogli notare che si “dispiace molto, ma che quella in questione non è una canzone“, fa notare a Paoli come alla canzone manchi l’inciso non rendendosi conto di stare mettendo bene in luce l’enorme novità che i cantautori saranno destinati a rappresentare nel concepire la forma canzone. Sarà poi Mina, nella sua casa di Cremona, a capire questo pezzo immediatamente: Mogol le presenta Paoli e lei decide di cantare il brano di cui il nostro si riapproprierà solo in occasione di quest’album.
La storia della canzone, ormai, è negli annali: Gino Paoli vuole raccontare l’orgasmo, l’esatta inafferrabilità del momento culminante dell’amore fisico, il corpo che si astrae da sé stesso, le sensazioni che una volta provate sono già auomaticamente disperse. Per farlo decide di soffermarsi sui dettagli altri, il contorno, di solito il modo migliore per concentrarsi sul centro: sigarette nel posacenere, mura, una musica che si sente arrivare dalle strade o da un appartamento vicino. Si parla sempre di un incontro sessuale con una prostituta e Gino Paoli conferma affermando che sì, in effetti “solo un casino poteva avere un soffitto viola”, ma che quello che desiderava raccontare è un fatto assoluto, e lo è del tutto prescindendo dal luogo, dalla persona e dalla situazione di partenza.
Il risultato è una canzone che ridefinisce la classe della musica italiana: 27 settimane in hit parade e un successo internazionale che raggiunge anche il Sudamerica.
“Senza fine” è un valzer in 3/4, un tempo che affascina Gino Paoli da sempre e a cui la sua scrittura resta molto fedele nel tempo: è il tempo del ritorno, a spirale, concentrico. Si narra che il pezzo venne scritto per Ornella Vanoni, con cui Paoli, all’epoca, ebbe una storia d’amore: a essere senza fine, come si racconta nel pezzo, erano innanzitutto proprio le mani della Vanoni: “Quando la conobbi, la cosa che mi affascinava di più in lei erano le sue mani, mani grandi, che potevano raccogliere tutto, che ti potevano proteggere“. La storia vede i due incontrarsi per la prima volta in una sala della Ricordi, la Vanoni chiede a Paoli di scriverele una canzone ma poi corre subito a parlare con Nanni Ricordi, dopo mezzora la riunione finisce e Paoli le annuncia di aver effettivamente scritto, in quel brevissimo lasso di tempo, una musica. La musica, ispirata dall’idea delle mani grandi che si racchiudono creando un nido, mani in grado di sembrare una culla, necessitava di un testo concentrico anch’esso, proprio come questo valzer, un testo che tendesse a tornare sempre nello stesso punto.
Ci vogliono mesi prima che il testo si definisca, ma una volta uscito, Frank Sinatra si innamora profondamente del brano e lo dedica a Mia Farrow, con cui in quel momento è fidanzato, definendolo come “la canzone del nostro amore”.
La storia di Paoli è strettamente connessa a quella di Luigi Tenco, amico e compagno di prime esperienze musicali ma anche a quella di Bruno Lauzi, trasversalmente del pazzo genio musicale di Umberto Bindi e dei fratelli Gian Piero e Gian Franco Reverberi, future braccia – ma soprattutto menti finissime – dell’universo di Nanni Ricordi. Se Gian Franco porta Paoli a Milano, Gian Piero lo fa restare e ne arrangia i brani, riuscendo, grazie a una preparazione classica straordinaria e a un intuito futuribile che rimarrà inciso in centinaia di solchi di vinile, a trasformare le composizioni minimali di Paoli in veri viaggi orchestrati, baroccheggianti: ballate e twist con organi in prima linea. Il comune seme compositivo di Paoli e Tenco, le simili radici, emergono soprattutto ascoltando “Sassi”, che tra i pezzi raccolti nel disco è il più tenchiano in assoluto: la struttura del testo è costruita intorno a un ragionamento sull’amore assimilabile a quelli diventati noti grazie ai brani di Luigi Tenco (“Mi sono innamorato di te”, “Se sapessi come fai”, “Tra tanta gente”, “Ah l’amore, l’amore”…). La rivoluzione di Tenco, per cui la parola d’amore in canzone si slega dalla mera dichiarazione di affezione e dolore per diventare lo spazio di articolazione di un discorso ben più complesso e sempre intimo, del singolo e non della coppia, un discorso in cui l’espressione in canzone non riguarda unicamente i movimenti emotivi ma anche quelli ragionativi che osservano e analizzano le fasi d’amore appena dall’esterno, si fa forte anche in “Sassi”. Paoli paragona le parole d’amore che rivolge alla sua donna a sassi consumati dalle onde del mare: la parola d’amore è stata già detta ogni volta ugualmente, ad ogni amore, le frasi dell’amore sono sempre le stesse, destinate perpetuamente a ripetersi, eppure sono sempre diverse, sono sempre lì, ferme, ripetute, consumate, necessarie. Questo ragionamento, se vogliamo semplice, intuibile, neppure troppo difficile da identificare vivendo, si infila in una canzone da jukebox, facendo a pezzi intrinsecamente ogni rima fiore-amore ma esaltandone, al tempo stesso, la potenza imperdibile per l’esperienza di ognuno, l’esperienza insomma della parola d’amore che si ripete e così facendo identifica, essa stessa, l’amore.
Se “Io vivo nella luna” ha gli stessi tratti, pur meno densi e inferociti, di “Io sono uno”, “In un caffè” anticipa l’ironia minima di “Passaggio a livello” che scriverà Jannacci ma reinterpreterà, perfettamente, proprio Tenco.
2. BASTA CHIUDERE GLI OCCHI (1964)
Anche se molte delle più grandi hit di Paoli sono contenute già nel primo album, è nel 1964, con “Basta chiudere gli occhi” che l’autore raggiunge la vetta forse più alta della sua carriera. Sbalorditivo, a pensarci, considerando che Paoli non ha ancora smesso di fare dischi. Per iniziare a capire di cosa stiamo parlando forse conviene partire dagli arrangiatori che rispondono rispettivamente ai nomi di Louis Enriquez (Louis Bacalov) ed Ennio Morricone (con le rispettive orchestre). La caratura dell’album, che raccoglie 12 brani di cui due, “Sapore di sale” e “Che cosa c’è”, pubblicati già l’anno prima e già diventate hit di enorme successo, è stratosferica: non si esagera affatto se si inserisce quest’album nella top 3 dei dischi di cantautorato italiano classico.
Il disco, che si apre proprio con una versione aulica e fiabesca di “Che cosa c’è” – brano che, causa le tante cover e versioni proposte si è imposta all’immaginario contemporaneo come una “Yesterday” italiana – ospita il brano sanremese di Paoli “Oggi ho incontrato mia madre”, una canzone che in originale avrebbe dovuto chiamarsi “Oggi ho incotrato mia moglie” e raccontare in modo piuttosto esplicito dell’adulterio. Naturalmente anche Nanni Ricordi, che costrinse Paoli per ore in una sala pur di farlo uscire con un brano per il Festival della Canzone Italiana, ritiene eccessivo proporre un brano dai temi così forti in un festival così ancora rivolto alle masse cattoliche come Sanremo. Ma perché nel 1964, Paoli, parlava così apertamente di adulterio? Si può dire che, in qualche modo, il tema gli fosse ormai caro. Chiusa la storia con Ornella Vanoni, nell’estate del 1962 Paoli incontra una giovane fan, Stefania Sandrelli, sempre presente ai suoi spettacoli alla Bussola di Viareggio. I due si innamorano perdutamente e dopo poco lei rimane incinta. La storia, naturalmente, finisce: Paoli è ancora sposato con la moglie Anna da cui ha un figlio che nasce solo pochi mesi prima di Amanda, la figlia avuta, appunto, dalla giovane e bellissima Sandrelli. Il lascito di questa grande love story, romanzatissima e ormai parte delle leggende dei rotocalchi di una volta arrivate in qualche modo fino a noi, è doppio: da una parte un tentato suicidio, il secondo di Paoli che, nell’estate del 1963, si spara al cuore con una Derringer Calibro 5 dopo aver ingerito tutte le pastiglie disponibili in casa. L’effetto non è proprio quello desiderato: la pallottola raggiunge il cuore ma non nel punto giusto. Paoli non muore e si tiene la pallottola, tuttora ferma e immobile a ricordargli quella che oggi, lui stesso, definisce come una vecchia storia sbagliata. Tormento amoroso e dramma esistenziale, sì, ma la storia con Stefania Sandrelli lascia soprattutto una canzone destinata a iscriversi nella Storia della musica italiana. “Sapore di sale” nasce su una spiaggia, naturalmente, probabilmente del litorale toscano, in Versilia, dove il cantautore e l’attrice si incontrano. La storia è la più semplice possibile: un uomo e una donna sono sulla spiaggia e mentre lui sta sdraiato sulla sabbia, sotto il sole, lei non fa che entrare e uscire dall’acqua e tra un bagno, un abbraccio e un bacio, l’uomo riflette sul doppio significato del sale sulle labbra e dell’amaro, del salato in bocca. La vita di ogni giorno è il sale spiacevole lasciato dal grigiore e dalla pigrizia del tempo che scappa mentre il sale delle labbra della donna amata che esce dall’acqua e gli corre incontro per un bacio, è un sale che aggiunge senso alla vita o, più semplicemente, piacere.
(foto via Sorrisi.com)
Anche in questo caso Paoli utilizza uno dei suoi giri di DO destinati a falò e canzonieri e ancora una volta si lascia sedurre da una struttura ciclica e a spirale nella stesura di testo e musica: ascoltando il brano sembra infatti di riuscire a visualizzare in modo sempre più nitido la tipica ripetitività delle azioni che si compiono al mare nella stagione estiva, la stessa azione sulla quale si costruisce il testo, ovvero il movimento ripetuto della donna dall’acqua all’asciugameno accanto all’autore: si configura insomma come un vero e proprio movimento intorno al quale l’intero brano ruota. La sconvolgente semplicità i questa canzone nasconde una costruzione precisissima che si connette direttamente a un arrangiamento di fiati, archi e pianoforte studiato al minimo dettaglio, qualcosa che nella sua versione originaria, prima di karaoke, midi version di pianobar, modestissime cover in tutta l’Italia e in ogni spiaggia della nazione, rasenta l’assoluta perfezione formale.
Nel disco però ci sono altri brani che, seppure destinati a non essere mai hit, si distinguono per eccezionalità nella discografia di Paoli ma pure nell’intera produzione a loro contemporanea: “Vivere ancora” e “Ricordati”, scritte per la colonna sonora di “Prima della rivoluzione” di Bernardo Bertolucci, un film di importanza statuaria, mai diventato noto al grande pubblico ma oggi recuperato dai cinefili per le sue strette connessioni al cinema francese e alla prima Nouvelle Vague. Un film importante, con una straordinaria giovane e bellissima Adriana Asti, a cui Paoli regala due perle cucite su misura per quel diadema raffinatissimo della nostra cinematografia. “Vivere ancora”, in particolare, mostra un Paoli ispiratissimo, al culmine dalla propria creatività, in grado di dare vita a un brano dalla struttura classicissima e insieme di utilizzare sempre di più quel suo lessico nuovo, inconsueto se inserito all’interno di una canzone. Non si era mai sentito nessuno che scrivesse così di “lenzuola” (non a caso il brano fu censurato e non programmato dalla RAI) o, come era accaduto in “In un caffè” “camerieri maleducati”, “posacenere”, ma non era neppure semplice imbattersi in canzoni che raccontassero di un pomeriggio al cinema ed evocassero, anziché il tempo del sentimento, il tempo vero di una vita divisa, nella pratica e nel quotidiano. La più grande operazione rivoluzionaria di Paoli si compie subito, agli albori di una carriera lunghissima: l’introduzione di termini vivi nella nostra canzone, qualcosa che già Modugno aveva iniziato a fare e che altri prima di lui (Buscaglione anzitutto) avevano introdotto ma che Paoli rivolta completamente abbandonando un mondo aulico di parole stradette e lontane dalla vita di ogni gioi giorno, ridando un senso sincero, fisico, realistico, alle storie di vita delle sue canzoni.
3. LE DUE FACCE DELL’AMORE (1971)
Alla fine degli anni ’60 Gino Paoli decide di abbandonare la canzone, per tre anni lavora come Oste a Levanto e negli anni successivi ne combina di tutti i colori a Bozzolo, un piccolo paese nella provinica di Mantova dove si fa nuovi amici e fa le cinque quasi ogni mattina sperimentando una vita di conversazione, divisione di spazio con il vicino, realtà umana senza civilizzazione televisiva. Gli eventi già narrati quassù avevano inasprito l’approccio della stampa nei confronti di Paoli e, dal canto suo, la RCA aveva fatto scadere il suo contratto: inspiegabilmente non ammesso a partecipare al festival di Sanremo del 1965, Paoli si ritira. Il periodo non è dei più rosei: apre un locale sulla riviera ligure ma nonostante serate di grande successo e di alto livello (anche Mina ne è ospite) non riesce a far decollare l’attività, inizia a fare uso di droghe da cui riesce ad allontanarsi solo in seguito a un incidente che, portandolo a restare in ospedale per alcuni giorni, gli permette di affrontare le crisi d’astinenza e superarle. Nel 1971 il compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra Giampiero Boneschi, milanese, invita Paoli a lavorare insieme e a incidere un album per la Durium. Gli LP, mai ristampati in digitale, infine saranno tre e andranno a comporre la “trilogia dei colori”. Il primo dei dischi è bianco, come sarà poi il “White album” dei Beatles. Il titolo è “Le due facce dell’amore” e si configura come un vero e proprio concept album. Le due facce dell’amore, infatti, sono in realtà i due lati dell’LP, sul lato A troviamo l’amore quand’ancora è felice e speranzoso mentre il lato B rappresenta il lato oscuro del sentimento. Tra i brani presenti ben tre canzoni scritte e già edite da Piero Litaliano, alias di Piero Ciampi (“Hai lasciato a casa il tuo sorriso”, “Fino all’ultimo minuto”, “Non chiedermi più”) nonché una co-firmata con Umberto Bindi “L’amore è come un bimbo”, e una storica “Albergo a ore” scritta da Herbert Pagani. I veri brani incredibili del disco però sono due: “Come si fa”, scritta interamente da Paoli e presentata l’anno precedente a Un disco per l’estate e, in primis, “Con chi fai l’amore Mimì”, un pezzo che, per il tema scelto – la narrazione amorosa di un uomo innamorato di una prostituta che le chiede di lasciare il lavoro – farebbe pensare a qualcosa di retorico e già sentito mentre sconvolge per bellezza, raffinatezza, scelta di immagini trasparenti e mai banali. Chi ha scritto frasi come “l’amore quello vero quello tutto bianco” o “l’amore che ti butta in mare e ti offre a fasci le viole”? Non è stato Paoli, no, neppure Piero Ciampi e nemmeno Herbert Pagani. La firma di questo pezzo è di Pippo Franco. Sì, avete capito bene, proprio lui, lo stesso Pippi Franco di “Che fico!” e del Bagaglino. Qualcosa di stupefacente, se si considera che stiamo parlando di un pezzo straordinario, dall’interpretazione impeccabile, un brano che appare costruito su misura per Gino Paoli.
4. I SEMAFORI ROSSI NON SONO DIO (1974)
Dopo la trilogia dei colori composta da “Le due facce dell’amore” (bianco), “Rileggendo vecchie lettere d’amore” (copertina nera e nuovi arrangiamenti, sempre di Boneschi, di grandi successi di Paoli) e “Amare per vivere” (bordeaux, in cui troviamo la grandiosa “Amare inutilmente”, inclusa nella colonna sonora di “Ecce bombo” di Nanni Moretti, che in “Bianca” inserirà nuovamente Gino Paoli, in una grandiosa scena indimenticabile del film) , è il turno di “I semafori rossi non sono dio”. Qui Paoli riprende e adatta in italiano i successi del cantante catalano Joan Manuel Serrat. Il disco è, trasversalmente, il più impegnato di Paoli, i temi trattati nei brani sono la libertà, la democrazia, la psiche e le ossessioni. “Il manichino” è il brano dell’album che si rende noto a un pubblico più vasto ed è, in un senso più stretto, l’unica canzone d’amore del disco che, al sentimento amoroso, si avvicina questa volta in mondo ancor più anticonvenzionale. “La donna che amo”, invece, si riaggancia, con un testo preciso, estremamente lirico e con una cifra tipica della poesia in lingua spagnola, a una certa classicità espressiva. Si tratta di un brano struggente e potenzialmente identificativo di questo Gino Paoli.
Il lavoro di Gino Paoli, Lorenzo Raggi e naturalmente di Joan Manuel Serrat, è rivestito e arrangiato da Pinuccio Pirazzoli che aveva già arrangiato “Amare per vivere” e che in questo LP di adattamenti sa come rivoluzionare più o meno interamente i brani. “Il manichino”, che in originale era una marcetta, qua si trasforma, alla maniera di Paoli, in un valzer lento, donando il consueto tempo in 3/4 all’autore che, in questo modo, riesce a ristrutturare il testo senza rinunciare a una necessaria complessità espressiva. Il manichino verrà portata da Paoli a Canzonissima nel 1974 e riproposta per molti anni nei suoi live.