Affinità e divergenze tra “DIE” di Iosonouncane e “Anima Latina” di Lucio Battisti: come hanno fatto a pezzi la vecchia dimensione del pop italiano.
Quando nel 2011 mi sono ritrovata nelle orecchie il promo de “La macarena su Roma”, l’esordio su cd di Iosonouncane, ho avuto immediatamente la netta sensazione di avere di fronte un disco che sarebbe rimasto a lungo irripetibile. Nessuno ne parlava, da nessuna parte, ricordo anche la difficoltà a reperire in giro qualche informazione in più rispetto a quelle inserite nella cartella stampa. Nulla: nessuna curiosità o intervista in giro. In qualche modo quella fu la prima volta in cui mi ritrovai a scrivere di un disco evidentemente di grande peso nel momento esatto della sua venuta al mondo esterno, prima cioè di un’eventuale nascente adesione della critica a quel lavoro, prima di qualsiasi eventuale fiume di condivisione del materiale sui social network.
Oggi, primavera avanzata 2016, mi ritrovo qui nella situazione opposta: scrivere – nuovamente – di un disco consacratissimo, di quello che a tutti gli effetti è ritenuto da chiunque maneggi con un po’ di attenzione la nostra musica, il disco dell’anno – che strana espressione – 2015, un lavoro che porta tuttora con sé un’aura speciale ad avvolgerlo e che non accenna oggi, a distanza di più di un anno dalla sua uscita, ad arrestare la propria continua ascesa nell’immaginario comune dei dischi italiani più importanti dell’ultimo decennio.0
Un numero ragguardevole di interviste, articoli, disamine, analisi più e meno approfondite di “DIE”, da un anno, partecipa senza sosta in modo attivo a mantenere accesa l’attenzione su questo disco che è, anzitutto, un esempio importantissimo di come si configura un prodotto artistico figlio di scelte maturate nell’assoluta libertà di concepimento, scrittura, elaborazione, produzione.
“DIE” è un racconto, una suite, costruita in primis come una storia, una piccola storia che sembra affondare nella memoria della notte dei tempi, una vicenda che è insieme primordiale e contemporanea: la storia d’amore della distanza dei corpi che è il sogno, il desiderio di riavvicinarsi all’altro ma pure il terrore, la paura della perdita, il crollo dei corpi nel corpo spaventoso e materno della natura, che, lo sappiamo, è matrigna al contempo.
“DIE” nasce da una piccola struttura intima della storia di un uomo e una donna divisi dal mare e immersi nel paesaggio da esso generato ma si configura in modo effettivo come un disco realizzato in modo corale. Bruno Germano alla registrazione, co-produzione e agli arrangiamenti dei fiati con Incani stesso, poi Simone Cavina (Junkfood) alle percussioni, Paolo Ranieri alla tromba, e poi ancora Alek Hiddel, Serena Locci ai cori, Mariano Congia alla chitarra elettrica e classica e infine Paolo Angeli alla chitarra sarda: l’idea di Iosonouncane era quella di originare un album profondamente stratificato perché partecipato nella sua stesura, un disco nato in ultimo da un lavoro di taglio e cucito accuratissimo, a partire da una grande quantità di materiale tra cui scegliere.
Il percorso che attraversa e costruisce questo disco dunque coincide con la messa a fuoco di una vicenda piccola e se vogliamo anche strumentale, intorno al quale si origina il lavoro di molti, come a ingigantire la bolla narrativo-sonora di base che poi, una volta scelto il materiale più adeguato, torna piccola, essenziale, privata di qualsiasi forma di autocompiacimento sonoro, di vezzo estetico, di manierismo.
Nello snocciolare nomi di riferimento legati a DIE è stata opinione diffusa riferire una vicinanza evidente tra questo album e i dischi più sperimentali e innovativi di Lucio Battisti con Mogol, vale a dire “Il nostro caro angelo” (1973) e “Anima Latina” (1974). Insieme ad alcuni momenti che tirano fuori dal cilindro persino Brian Eno – che, siamo certi, amerebbe l’album – è impossibile tenere lontano Battisti dal racconto intorno a questo LP e, nei fatti, non certo per la vicinanza sonora tra i prodotti finiti quanto per essenziali motivazioni strutturali, di concezione artistica, di metodo e di lavoro sulla parola, sull’integrazione del testo nel brano musicale.
Quel lavoro certosino, accurato, ossessivo sul suono che accompagnò Lucio Battisti nella stesura di “Anima Latina”, nella ricerca di suoni da costruire e assemblare, è lo stesso che Jacopo Incani non ha smesso mai di definire al limite dell’ossessivo sul suo “DIE”, lo stesso identico desiderio di costruire un lavoro che non risultasse mai artisticamente autoriferito, penosamente destinato a un pubblico passivo e a un sé ancora più sofferente nella propria convinzione di rappresentare qualcosa di nuovo – ricalcando in verità stilemi resi poveri perché introiettati in modo analfabeta, come per esempio quelli del cantautorato classico. Un desiderio che ha reso possibile la nascita di un lavoro come questo, e di quella che al momento possiamo definire un’entusiastica resistenza al tempo (per ora piccolo) trascorso, pur nel bombardamento di last-big-thing continue.
La verità è che la rarità di un disco come questo è la stessa rarità del Battisti di cui parlavamo poco sopra – il preciso desiderio di costruire un album in grado di ingaggiare in prima persona i suoi ascoltatori, abbattendo la barriera dei ruoli di attivo e passivo nella musica pop, alzando l’asticella, sfidando con prepotenza l’ascoltatore a comprendere le parole, ad aiutarle a emergere – è invero la stessa battaglia, combattuta nel 1974 come nel 2015, con un passaggio di testimone del tutto aereo che le rende una figlia dell’altra.
Battisti desiderava provare che la parola, proprio quella parola che lo aveva fatto uscire vittorioso dai juke box di tutti i lidi del Paese come il nuovo divo della canzone, poteva essere rivoltata e poteva stare lì, sotto, nascosta in apparenza ma in realtà semplice da pescare e da riportare alla superficie, da “ascoltare con attenzione, magari rimettendo il disco daccapo, magari facendo irritare chi non è riuscito ad individuare al primo ascolto una parola, è un’operazione stimolante e coinvolgente”. In questo senso, ancora prima che nell’esaltante risultato, “Anima Latina” è un disco d’avanguardia per la scelta che rappresenta: fare a pezzi la vecchia dimensione del pop italiano, una dimensione di divismo del testo, centralità del verbo costruita solo in modo apparente, una centralità di copertura, che si adagia sull’assenza di un vero lavoro sulla parte strumentale dei pezzi. Naturalmente Battisti lavora in una dimensione iperbolica – i suoi dischi hanno sempre avuto un peso importante anche e soprattutto nelle musiche – quella dimensione in cui è, piuttosto, il pubblico a relazionarsi preponderatamente col testo e non con la musica, lo stesso pubblico qua costretto a regalarsi un piacevole sforzo.
In un tempo in cui la parola cantautore torna di moda ed è più imbarazzante usarla a causa della media qualità dei dischi che ne vorrebbero rimpolpare il significato, Iosonouncane bombarda la finzione che la avvolge e ristabilisce il proprio senso del testo che, se meritevole, è giusto andare a ricercare: quella parola che appare sommersa da un’orchestra di campioni, di stesure e ristesure, nel battito cardiaco della terra che si fa magma elettronico.