Non ha mai convinto gli affrancati e poi pentiti ‘vintagers’ degli anni ’80: tutti odiano Vasco, ma la sua vicenda artistica è una storia di formazione rock.
“Dimentichiamoci questa città
bambina amiamoci
dimentichiamoci il freddo che fa
baby svestiamoci:
(…)
non ti devi preoccupare
so io come fare
e poi vedrai che domattina
avrai qualcosa da ricordare.”
(“Dimentichiamoci questa città”, 1981)
Sanremo
30 gennaio 1982. Come da copione di chi ha un futuro di successo, alla sua prima volta a Sanremo Vasco si posiziona molto male. Non ultimo ma penultimo e preceduto, in peggio, solo da Zucchero. La canzone in gara è un reggae interessante e si intitola “Vado al massimo” come il suo ultimo album, in uscita: il quinto in totale ma il secondo a muovere sensibilmente un pubblico che non risiede entro i confini dell’Emilia Romagna. Inizia nei fatti da lì, Vasco, con la speranza di cavalcare il successo del precedente “Siamo solo noi” la cui title track aveva assunto, nella seconda parte del 1981, un’importanza popolare in grado di mostrarne la predestinazione a divenire, più avanti ancora, un vero e definitivo inno generazionale. Ma Sanremo è Sanremo e Sanremo può, da sempre, cambiare le carte. Così, per dare una spinta maggiore al disco in arrivo, un Vasco ben lontano dal successo ma già arrivato a un punto importante della propria produzione discografica partecipa alla trentaduesima edizione del Festival della Riviera, forte di una criticatissima esibizione RAI a Domenica In un paio d’anni prima, in diretta dal Motor Show di Bologna. A notarlo più d’ogni altro, in quella piccola performance pomeridiana, era stato il giornalista Nantas Salvalaggio che, sulle colonne di Oggi, lo aveva così apostrofato: ‘divo di questo “complesso”, che più complessato di così si muore, è un certo Vasco. Vasco de Gama? Ma no, Vasco Rossi… (…): un bell’ebete, anzi un ebete piuttosto bruttino, malfermo sulle gambe, con gli occhiali fumè dello zombie, dell’alcolizzato, del drogato “fatto”‘. Salvalaggio, così, finisce veloce e diretto nella canzone per Sanremo, è proprio lui “quel tale, quel tale che scrive sul giornale” che, secondo Vasco e il suo pezzo: “meglio rischiare” che diventare come lui.
L’esibizione in finale diventa una seconda “24.000 baci”, in versione riveduta e aggiornata: se Celentano, infatti, aveva sconvolto il gesso del pubblico sanremese saltando su sé stesso e dandogli le spalle in uno scatenato rock’n’roll di certo inconsueto su quel palco, Vasco Rossi, alla fine della propria esibizione, si infila il microfono in tasca e si allontana con l’intento di consegnarlo al concorrente successivo. Il filo, però, è troppo corto, e il microfono cade dando origine a una serie di accuse nei confronti del cantante: eccesso di ribellione, azione punk non adatta al contesto, maleducazione – e tutto quello che possiamo immaginare.
In albergo, dopo questa finale dal risultato poco felice, Vasco spacca tutto, anche l’asse del water in plastica, prodigandosi in una notte di sesso con una giornalista con la quale aveva litigato per ore, rientrati insieme in hotel con altri conoscenti, per via del paternalismo di lei che, in modo evidentemente più seducente di Salvalaggio, lo aveva invitato insistentemente a non traformasi in un pessimo modello per i ragazzini che iniziavano a essere suoi fan e a volerlo imitare. (Pare che la litigata si protrasse anche dopo che lui, prendendola per mano, se la portò nel bagno).
3 febbraio 1983. Solo un anno è trascorso dall’ultima (e prima) esibizione di Vasco a Sanremo quando ecco che, vestito davvero male e con le mani timide quasi sempre in tasca, sullo stesso palco di “Vado al massimo”, esegue per la prima volta in assoluto “Vita spericolata”, la canzone che cambierà la sua carriera e che gli cambierà la vita. Non più un inno generazionale com’era “Siamo solo noi”, ma una personale dichiarazione d’intenti, la risposta a tutto quel paternalismo di giornalisti e critica, qualcosa in grado di chiudere definitivamente con i giudizi estranei, con titoli robanti come “Anche alla TV c’è l’ero libera”. Il Roxy Bar di cui si parla nella canzone è quello in cui la bionda di “Che notte” di Fred Buscaglione ‘fa il pieno’. Non è una scelta casuale visto che la canzone di Buscaglione dipinge molto bene quello che poi è anche il mondo di riferimento di Vasco Rossi: notti deliranti ai bordi della provincia, notti di banconi di bar, serate sfinite di donne, alcool, musica, zanzare e tutto quello che la pianura e l’Emilia laterale possono farci immaginare, sognare e, in molti casi, oggi, cantare.
Anche questa volta Vasco non perde l’occasione di finire nella vulgata giornalistica come il solito maleducato e irrispettoso dell’etichetta del Festival. Non solo il brano si allontana molto dallo stilema della canzone leggera che tutto sommato continua a dominare la kermesse, ma all’attacco dell’ultimo ritornello Vasco abbandona precocemente il palco, mostrando così in modo evidente anche al pubblico meno esperto, che le esibizioni del Festival sono tutte rigorosamente in playback. “Mi sono ispirato a Wim Wenders, che fa finire i suoi film con l’inquadratura fissa e la musica“, confesserà anni dopo.
Vita spericolata porta “Bollicine“, il sesto album di Vasco Rossi in sei anni, molto in alto in classifica dove rimane per trentacinque settimane consecutive, assicurandosi un posto d’onore tra i cinque album più venduti in Italia nel 1983.
Se “Bollicine”, con i suoi 8 brani per 33 minuti di musica, riesce a uniformare nella propria compagine-album, per la prima volta, molte delle anime di Vasco sintetizzandole insieme senza mostrarcele una a una, è anche il disco che fa i migliori patti con i suoni del proprio tempo, quello in cui tra “Una canzone per te” e una più estrema “Mi piaci perché” aggiusta il tiro, fa uscire sonorità meno calde, più razionali, riesce a figurarci quasi fisicamente, musicalmente, le condizioni del suo autore nell’abuso estremo di Lexotan, anfetamine e altri farmaci. Un album rock con derive intime sintetiche – più nella struttura che nella musica, più nell’approccio che nel risultato finale. La Coca Cola realizzò di aver ottenuto talmente tanta pubblicità dalla title track, da non volere più denunciare cantante e casa discografica.
Da quel momento in poi la strada, per Vasco, sarà tortuosa ma in discesa: ci saranno arresti, il carcere, il conclamato abuso di cocaina e altre sostanze stupefacenti, la solitudine ma pure, nella seconda metà degli anni ’80, il passaggio dai palazzetti agli stadi e un incredibile successo di pubblico.
Indipendente
Eppure, va detto: il meglio forse c’era già stato e stava nascosto in quei primi cinque dischi poco calcolati dalla critica, con una distribuzione limitatissima e per nulla in grado di raggiungere palazzetti né stadi. Dischi suonati nei club di provincia, in serate che riemergono ogni tanto dai ricordi di qualche presente felice di dire “io c’ero e ho visto Vasco, tutto sfatto sul palco, con un maglione molto più grande di lui”.
Una carriera che inizia con una delle canzoni più belle che il suo autore scriverà in quasi 40 anni di carriera, un pezzo scritto del 1977 uscito nell’LP d’esordio “Ma cosa vuoi che sia una canzone”. Si tratta di “La nostra relazione” che apre il disco con chitarre drammatiche che sembrano quasi fare le veci degli archi e un testo già alla Vasco Rossi in grado di unire ironia, tristezza, rabbia. Un testo semplice, dritto, bellissimo, rivelatore. Un suono, come d’altronde in molti pezzi dell’album (“E poi mi parli di una vita insieme”, “Jenny è pazza”) ancora profondamente anni ’70 da prima uscita tutta cantautorale ma dissacrante rispetto al cantautorato all’epoca ancora classicamente inteso. Il disco è un piccolo gioiello trasmesso quasi solo dalle radio libere tanto care a Vasco – che iniziò la propria carriera di performer prima a teatro, in veste di attore, e poi proprio in radio, in pieno Movimento Studentesco.
Eppure tutto questo non basta a raccontare quanto il Vasco indipendente, stampato in tirature iniziali da 2.000 copie, a tutti gli effetti immerso in un modus operandi che oggi gli riserverebbe un posto d’onore nelle file indie, sia stato importante.
“Non siamo mica gli americani”, secondo album poi ristampato e ancora oggi in commercio con il titolo “Albachiara“, mischia il tiro punk di “Fegato spappolato” – ancora oggi un pezzo freschissimo e disarmante – all’ironia di “Io non so più cosa fare” e “Va bè (se proprio te lo dire)” che rispettivamente aprono e chiudono l’album. Al centro, soprattutto, c’è proprio “Albachiara”: una ragazzina preadolescente che aspettava la corriera a Zocca, la città natale di Vasco, diventa la protagonista di un’elegia rock, trasferendo un’immagine petrarchesca di donna vagheggiata, dentro quella di una giovane ragazza di oggi che inizia a familiarizzare con il proprio corpo e con la propria identità femminile attraverso la masturbazione. Interessante è il modo in cui i due piani coincidono anche musicalmente, come se Vasco ricostruisse un’immagine di donna la cui purezza non va certo a scontrarsi con la presa di coscienza di sé, anche quella fisica e sessuale. Anni dopo Vasco reincontra la ragazza protagonista e le confida di aver scritto il pezzo per lei che, imbarazzata, scappa via. La storia del racconto, e della confessione di Vasco ad Albachiara, diventerà il testo di “Una canzone per te”, contenuta, come dicevamo, in “Bollicine”.
L’ultimo disco di Vasco destinato a restare per pochi è “Colpa d’Alfredo“, che si affaccia sul mondo discografico italiano all’inizio dell’aprile 1980. Un flop, un altro, ma non importa. La title track è un poemetto epico della notte in provincia: racconta delle serate da dj dell’autore, di quando i protagonisti delle notti erano tre ruoli intercambiabili: il disc jockey, il negro e la troia. Il pezzo non viene capito o forse viene capito fin troppo bene e un verso come: «è andata a casa con il negro, la troia» attira verso Vasco naturali accuse di razzismo e maschilismo nonché l’immediata censura del brano. Il singolo di lancio diventerà quindi “Non l’hai mica capito”, un brano quasi da spiaggia, a metà tra la ballata e la canzone pop dell’ultimo della classe, cantato alla secchiona di turno che non pensa all’amore ma solo a studiare e farsi qualche maschietto, ogni tanto, senza mai farsi conquistare davvero, senza innamorarsi. L’intro del pezzo è un accenno di “Albachiara”, quasi a dimostrare che la donna protagonista dei pezzi, di questo tipo di pezzo di Vasco che diremmo più romantico, è in realtà sempre lei, la ragazza pura che non si fa prendere e che pensa solo a emanciparsi sessualmente come nello studio e insomma, nel lavoro. Viene da pensare che tutto questo si ricolleghi molto naturalmente alla storia d’amore tormentata che Vasco ha in quei primi anni di carriera, con una femminista convinta che lo tormenta e lo fa, da cronache del tempo, soffrire molto.
Anche “Sensazioni forti” fa tremare i bigotti: “non importa se la vita sarà breve, vogliamo godere godere godere” è una versione italiana del live fast, die young da “Gioventù bruciata” che non piace a Salvalaggio, dicevamo, ma contribuisce invece a rendere Vasco noto ai più giovani.
Nel 1981 arriva “Siamo solo noi“, l’album che di fatto inizia a cambiare le carte sul tavolo da gioco. Trainato da uno dei giri di basso più belli della storia di tutta la musica italiana, ideato da Claudio Golinelli, storico bassista di Gianna Nannini, durante un concerto della cantante, il pezzo si configura immediatamente come un futuro, eterno inno generazionale. Parliamo di qualcosa di inesistente in Italia: una canzone rock in grado di stilizzare al proprio interno lo stile di vita del rock stesso attraverso immagini della vita quotidiana che esprimono le scelte di tutti quei ragazzi che nel frattempo erano anche passati attraverso il punk e che la tradizione della nostra musica per tutti non si era certo azzardata a raccontare. Vasco lo fa su questa melodia killer destinata a cambiare per sempre la sua storia e a incidersi nella memoria collettiva invero molto breve della canzone rock italiana, rendendola pronta agli stadi ben prima che questi inizino ad accoglierla.
Il riff di “Living after midnight” dei Judas Priest detta la legge base per la costruzione di “Dimentichiamoci questa città”, ancora qualcosa di strutturalmente punk: un modo davvero inconsueto nella Nazione di raccontare l’amore, il desiderio, la voglia di un incontro. Allo stesso modo un’afosa giornata di sole estivo bolognese detterà le leggi che porteranno alla nascita di “Voglio andare al mare”, un reggae d’appartamento, un reggae da frustrazione scritto da Vasco e dal suo fedele, fidato e geniale chitarrista Massimo Riva.
Il disco non perde un colpo ed è forse il più compiuto tra quelli del primo Vasco perché riesce a portare in sé sia quest’anima intransigente, sia una serie di citazioni italiane che collocano l’album precisamente all’interno di un’evoluzione cantautorale (“La gatta” di Gino Paoli è citata in “Valium”) e, in ultimo, l’apertura alla ballata rock che diventerà un dogma nel Vasco-Universo e che qua è rappresentata da “Brava”, con tutta quella leggenda della dedica a Barbara D’Urso, che sarebbe stata la vera musa del brano, purtroppo smentita più volte da Vasco stesso.
Un senso a questa storia
Una piccola musicassetta con il foglio arancione un po’ scolorito è il primo regalo che mio padre ha fatto a mia madre quando si sono conosciuti e, molto velocemente, innamorati. Ho ritrovato questo piccolo reperto sentimentale e famigliare quando nella primissima adolescenza mi sono affacciata sul magico scrigno del repertorio musicale di casa: scorrevo le dita un po’ ossessivamente sulle coste dei vinili, guardavo ipnotizzata le colonnine dell’equalizzatore dell’hifi andare su e giù e soprattutto frugavo tra le cassette di mamma e papà. Lì dentro c’era una specie di Best of che iniziava con “Non l’hai mica capito” e finiva con una scritta sotto il margine dello spazio dove scrivere i titoli che diceva “Ciao”. Per molto tempo ho pensato che quel “Ciao” fosse un saluto che mio padre aveva timidamente apposto alla fine del suo piccolo regalo, poi un giorno ho scoperto che, piuttosto, si trattava del titolo di un’altra canzone, l’ultimo brano di “Ma cosa vuoi che sia una canzone”.
Una di quelle fasce da legare alla testa con scritto “Liberi Liberi” se ne stava dentro un contenitore posizionato su una mensola dietro la porta della loro stanza da letto. Ricordo che da bambina indossavo quella fascia per ridere e far ridere i miei il sabato mattina, mentre a casa si facevano le pulizie con la radio accesa.
Mi piace pensare di non aver raccontato niente di personale e che dunque, a un livello più alto di quello della mia singola e non singolare esperienza, la mia generazione, quella dei nati durante gli anni ’80, abbia trovato in casa alcune cassettine analoghe e abbia familiarizzato con il merchandise dei concerti rock in un modo molto simile al mio, passando necessariamente attraverso la figura di un personaggio chiave della canzone italiana e dell’unico personaggio chiave del rock popolare italiano, trasformandolo poi in una faccia stampata che si fa velocemente madeleine.
Noi, a un certo punto, abbiamo scoperto la musica: la maggior parte di noi ha dimenticato le cassette di mamma e papà e ha cominciato a registrarne di proprie, ha eliminato con righe nette i retaggi dei vecchi Festivalbar guardati fino a tardi nelle sere d’estate, ha dimenticato i viaggi in automobile con la radio accesa e la mamma che ti invita a cantare o a stare fermo ché poi ti viene la nausea. Abbiamo messo via tutto per affrancarci dall’infanzia e diventare adulti, provare a consocere qualcosa da soli, farlo nostro, avere una nostra cultura, salvo poi ripiombare nell’oggi a confrontarci più o meno forzatamente con il ritorno, con le mode che ci impongono i recuperi dell’infanzia: cedrate Tassoni vintage, gelati Algida che per anni erano usciti dal commercio, il desiderio di riportare in vita il Mio Caro Diario o una vecchia consolle superatissima. E poi le cassettine, quelle cassettine su cui è tanto figo ascoltare oggi un disco sconosciuto che abbiamo scoperto noi.
E Vasco? Cosa c’entra Vasco?
Vasco no, non è mai tornato, non ha mai convinto gli affrancati e poi pentiti vintagers degli anni ’80. “Tutto ma non Vasco”, “Che schifo Vasco”. Tutti odiano Vasco, insomma, effettivo emblema popolare di un tempo che oggi ricostruiamo attentamente, emblema perfetto di ciò che, almeno massicciamente, forse non abbiamo mai conosciuto e per questo non abbiamo mai potuto amare. Tuttavia basterebbero questi cinque dischi di quest’autore a cui è stato cucito addosso l’abito del capro espiatorio di quello che chiamiamo (ridicoli) “mainstream”, per renderci conto di quanto la storia di Vasco sia stata in realtà una vicenda artistica fondamentale e ‘di fondazione’ rock, ben prima che grandi etichette e grandi palchi ne accogliessero le gesta.
Il giorno dell’arrivo di un altro Festival di Sanremo, a 34 anni di distanza dall’edizione che portò per la prima volta Vasco sul palco del Teatro Ariston, daremmo moltissimo perché qualcuno salisse lì sopra con una canzone buona anche la metà di “Vado al massimo” – per non parlare di “Vita spericolata” – e perché, soprattutto, qualcuno se ne andasse con un microfono in tasca facendolo volare a terra oppure, ancora meglio, alla Wim Wenders, prima della vera fine di tutto.