I’m your man

Sull’asfalto bollente dell’amore insieme a Leonard Cohen.

C’è un momento poetico estremo, un momento del cinema italiano al quale ho sempre desiderato stringermi, un piccolo istante cinematografico perfetto, dove la macchina da presa, la colonna sonora, il monologo, l’intera narrazione, la sequenza panoramica mi sembrano unite da una fortuna celeste, straordinaria.

Si tratta della sequenza di Caro Diario di Nanni Moretti, nell’episodio In Vespa in cui il protagonista attraversa una Roma estiva, semideserta e umanamente bizzarra, sudata, svuotata in cui a un certo punto parte I’m Your Man di Leonard Cohen. Il monologo di Moretti si fa rado, come la città si svuota, lo senti pacato, direi concavo visto che l’ho sempre immaginato così: una buca svuotata della terra, uno spazio caldo che scivola sotto il sole.

“Sì, la cosa che mi piace più di tutte è vedere le case, vedere i quartieri”, piccola pausa, “e il quartiere che mi piace più di tutti è la Garbatella” piccola pausa, di nuovo “E me ne vado in giro per i lotti popolari”… Lunga pausa, il volume della canzone si alza e il giro in Vespa continua.


La mia fascinazione per queste pochissime battute che solcano l’asfalto romano di un agosto lontano, affondano in uno spazio ancestrale di pre-cinefilia, quell’antro del cinema conosciuto delle VHS trovate in casa in un mobile in legno adibito alla cultura video e ai vecchi giornali, quello spazio chiuso a chiave dove abitualmente mi rifornivo di film senza sapere assolutamente nulla di loro, vergine culturalmente, ancora fruitrice di una cultura famigliare ma già non più sotto gli occhi fissi dei miei genitori, beneficiaria solo parzialmente passiva di qualcosa di cui non conoscevo origini, storia, estremi ma che attivava già in me movimenti adulti, consapevoli, vigili.

Caro Diario è la città fatta film, la seconda cosa a cui ho pensato del tutto involontariamente, è chiaro, quando ho visto le fondamenta di The Towner; è il film che da ragazzina facevo partire per coccolarmi, avere un sottofondo che conoscevo a memoria: come un disco che gira mentre stai lavando i piatti e di cui puoi perdere pezzi perché sono tuoi e li puoi cantare tu.

A questo momento di Caro Diario ho ripensato stamani, quando una voce, già sveglia, mi ha detto al buio mentre dormivo: “Giulia, è morto Leonard Cohen”.

Il pensiero più immediato, all’effettivo risveglio, è stato un senso di svuotamento totale derivato dall’idea diretta di ritrovarmi nuovamente a incontrare un flusso di necrologi e di tristezze, di affermazioni e di informazioni, di esperienze in una prima persona che non sono io. Niente di sbagliato, sia chiaro, ma in queste ore così intense e ricche tanto di dichiarazioni quanto di gare di sagacia e calembour, il peso dell’opinione altrui può diventare difficile da sostenere, specie quando, come in questo caso, non si parla di una faccenda pubblica ma privato com’è l’esperienza artistica per ognuno di noi.

Subito dopo, però, è emersa dalle memoria quella sequenza, sono riemersi i silenzi di Moretti, la scelta di una recitazione così dolce e insieme definitiva, in grado di conficcarsi nella mente di una ragazzina che ancora non sa cosa sia il cinema e di tornare nella mente di una donna dopo vent’anni in una mattina un po’ triste.

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Leonard Cohen, per me, è partito da quel viaggio in Vespa, ed è da lì che ho deciso di andare a conoscerlo, conservandone tasselli dispersi mentre scoprivo l’esistenza degli LP e mi immergevo nelle canzoni. Ho amato e amerò per sempre Leonard Cohen più di quanto mai amerò Bob Dylan perché l’amore è così, non c’entra con la perfezione e di Cohen ho amato la scrittura sghemba, ironica ed erotica, più assoluta e totalizzante e per pazzi romantici che perfetta. Più i suoi dischi erano matti, imperfetti, infilando l’elettronica nel folk, disturbando l’idea classica del cantautore blablabla, più io per lui impazzivo.

L’ho amato senza musica, leggendo le sue poesie, l’ho amato con quella scrittura così melodica che lo stesso Dylan gli ha spesso riconosciuto e che resta sempre il mio modo preferito di concepire le canzoni.

Leonard Cohen ha conosciuto la classicità e la conoscerà per sempre: una classicità diversa, se vogliamo trasversale, una classicità letterariamente romantica, qualcosa di così pochi artisti da confermarsi oggi il suo primo tratto distintivo.

I’m Your Man, avrei scoperto anni dopo, sanguinando anch’io come chiunque dovrebbe poter sanguinare almeno una volta nella propria vita, non c’entra niente con i palazzi, le case, quella Roma bruciante; non c’entra niente, non direttamente. Ma I’m Your Man racconta un momento preciso dell’amore così universale da includere tutti gli innamorati: il momento delle promesse che non potremo quasi mai mantenere. Un cratere nella linea della nostra vita, quello in cui precipitiamo in una pausa dalla lucidità e invitiamo qualcuno a seguirci in un inferno dorato, e lo invitiamo davvero ad ogni costo, come in un viaggio nel cratere del tempo, uno spazio bollente nella solitudine della nostra stagione di vivi.

“Se vuoi un altro tipo d’amore indosserò una maschera per te, sarò il tuo uomo, se vuoi un pilota salta dentro, se vuoi usarmi per un giro sono qui”.