La playlist all-time di uno dei più grandi critici musicali viventi, Greil Marcus, raccolta in un libro appena uscito in Italia grazie a Il Saggiatore, non è la playlist della storia del rock che vi aspettate, anzi probabilmente non indovinereste nemmeno una canzone.
Quanto bisogna essere monumentali per pubblicare un’opera in cui si racconta a tutto il mondo la propria personale playlist di canzoni rock che hanno fatto la storia?
Moltissimo, ovviamente, ma non solo: diremmo, piuttosto, che per risultare credibili in un’operazione tanto complessa e – oggettivamente – soggettiva, è necessario essere i numeri uno, i primi, non solo per talento, affermata attendibilità e statura autoriale ma anche nella pura cronologia della storia dello scrivere il rock. Niente appare al mondo tanto soggettivo, aleatorio e mutevole come il gusto e il giudizio musicale, specie se parliamo di musica leggera, e solo chi ha visto il grattacielo nascere dalle fondamenta può permettersi – pare – di scegliere chi deve salire in cima a quella costruzione.
Greil Marcus, da pochissimo nelle librerie italiane grazie a Il Saggiatore, con il suo Storia del rock in dieci canzoni è chi, più di chiunque, ha visto e vissuto in prima persona la nascita della musica rock come narrazione, come trasmissione scritta di un mondo suonato sui palchi del movimento hippie e mai prima di allora formalizzato a parole.
Inizia a scrivere di musica al college, nel 1965, e proprio tra i banchi conosce Jann Simon Wenner che nel 1967 fonda Rolling Stone – di cui oggi è ancora editore. Il giovane Marcus non gradisce il modo in cui la nuova rivista approccia, nelle recensioni, il mondo, il disco e la canzone rock’n’roll e così spedisce a Wenner un esempio di come vorrebbe leggere di musica. Come in quello che, per molti ragazzi delle generazioni successive, si configurerà come il sogno di una vita, dalla settimana successiva all’invio della sua proposta, Marcus, entra a far parte del colophon di RS e, in breve tempo, finisce col ricoprire il ruolo di responsabile delle recensioni per una paga di 30 dollari a settimana.
Da quel momento, il ragazzo di San Francisco si candida a diventare il numero uno tra i critici musicali rock di tutti i tempi e lo fa forgiando l’idea stessa di narrativa rock, superando l’eterno limite della descrizione tecnica, del racconto stanco di faccende poco più che nerdy, finalizzate a un apprendimento culturale gelido e nozionistico. Al contrario, Marcus costruisce un’idea di racconto del rock che passa attraverso un’espressione calda ed estrema, soggettiva, coinvolta, interpretativa e, quindi, intrinsecamente critica.
Questo libro è un altro dei risultati di quest’approccio. A comporlo ci sono 10 canzoni che nulla hanno a che fare con la nascita e la crescita filologico-cronologica del genere rock e che non appartengono a nessun nome che risulti stilizzato nelle nostre menti come espressione della fondazione del rock.
Marcus si concentra sull’essenza vera di questo genere e sul modo in cui, l’appassionato, il conoscitore e, in questo caso, il critico, non solo lo concepiscono e percepiscono ma lo vivono in profondità, lo raccolgono da esibizioni, registrazioni, riproposizioni cinematografiche. Rock è il movimento strambo di un musicista che vedi scattare dentro un tv color, è il respiro tragico che accompagna il cantato di una singola parola, è la curva in minore di una chitarra punk nichilista.
Più di una faccenda da storicizzare in progressione, il rock è, insomma, «precisamente il momento in cui una canzone o un’esibizione è essa stessa il proprio manifesto che avanza le sue pretese sulla vita con un linguaggio originale, personale (…)».
1 – SHAKE SOME ACTION – Flamin’ Groovies
Un brano governato da un senso di tensione costante, crescente. Un pezzo dove il balzo è centrale, e laddove la chitarra prende spazio il cantato scivola. L’idea della perdita costantemente presente, attivata come una molla, un allarme nell’ascoltatore, non è forse l’essenza più intima del punk? I Flamin’ Groovies, che ebbero i Ramones come band spalla, a Camden, nel 1976, ma che furono destinati poi, eternamente, a spalla del genere incendiario, sintetizzano allora in questo pezzo una delle chiavi tecniche e insieme sentimentali del punk: tensione, fallimento, perdita.
Qualcosa che potrebbe fare un effetto analogo con carte diverse? Venus dei Television.
2 – Transmission – Joy Division
Non esiste film musicale capace di strappare letteralmente il fiato da chiunque sia seduto su una poltrona e stia guardando lo schermo, come Control, il film di Anton Corbijn del 2007 dedicato alla storia di Ian Curtis e dei Joy Division.
Ricordando perfettamente la sensazione pastosa di inadeguatezza assoluta e commozione nei confronti della vita e dell’esistenza suprema della musica sul pianeta Terra che provai, spogliata, quando lasciai il cinema dopo la proiezione, ho compreso oggi radicalmente la scelta di Marcus: non raccontare Transmission dei Joy Division partendo da un’esibizione reale della band ma dalla ricostruzione cinematografica presente in Control, del live alla trasmissione Granada Reports, in onda il 20 settembre 1978.
In un gioco di soggettivo e ineluttabile, mettendo in atto una precisa narrazione dell’accaduto, Marcus descrive l’esibizione e compie in modo esatto la ricostruzione del pezzo, dei crescendo e poi del senso di sfaldamento progressivo, sul finale, di tutta la strumentazione, trasferendo l’adesione assoluta, nell’esecuzione e nell’interpretazione, del valore più profondo del brano, del suo senso più intimo e vertiginoso.
Marcus cuce appassionatamente lo scenario in cui nacque la band (simile a quello in cui si formarono altre band capitali di Manchester e della Factory Record come i Buzzcocks) e lo fa passando da realtà al film e dai live del film alla realtà di nuovo. Fondazione del punk come rito iniziatico – segnatevi il 4/6/1976 con il live dei Sex Pistols come data in cui si concepì il futuro di mezza musica europea del futuro – e un brano che cambia forma a ogni esibizione ma il cui nucleo resiste non modificabile, codificando un mix di azioni, resistenze e abbandoni che il pubblico, insistentemente, certe sere, domanda. Lo stile ipnotico nell’esecuzione di Curtis, che – come dice Jon Savage – riflette i suoi attacchi epilettici sempre più frequenti.
3 — In the Still of the Nite – The Five Satins
«Intona con potenza “love”: la parola stessa è ora così perdutamente innamorata dell’idea di sé da incresparsi in cerchi concentrici sempre più ampi, come un sasso gettato in un lago».
Anche per questo pezzo di rock’n’roll delle origini e batticuore doo-wop, portato alla luce dal gruppo vocale The Five Satins e diventato più noto al grande pubblico non su 45 giri nel 1956 ma nella colonna sonora del film Dirty dancing nel 1987, Marcus sceglie un’analisi semantico – musicale profondissima, al microscopio, del cantato e dell’interpretazione tutta, tra strappi amorosi, ambiguità, intonazioni a comunicare dubbi ed esitazioni emotive. L’ossessione del critico, che definisco magica, per i legami più nascosti presenti tra il piano del racconto nella canzone e quello della presentazione di essa al pubblico, è uno dei tratti fondamentali e importanti della narrativa musicale. Lì, in quella cura per le pieghe e le curve più nascoste dell’incedere dei brani, sta il progresso dell’interpretazione e quindi, la storia della musica raccontata.
4 — All I Could Do Was Cry – Etta James & Beyonce
Solo un maestro come Marcus può riuscire a restituire con tanta precisione l’autobiografismo emotivo, una delle caratteristiche chiave, la più importante e irrinunciabile, di tutta la storia della canzone. L’autobiografismo del diavolo Etta James qua viene sradicato e fatto a pezzetti, analizzato, masticato, riproposto al lettore con una cura al dettaglio straordinaria e strappacuore.
Al centro, una canzone d’amore autobiografica da annali e la ripresa, ancora una volta in un film, dello stesso brano, da parte di Beyonce che interpretò una commossa e ribelle Etta James in Cadillac Records, ripercorrendone la storia e le esibizioni con la naturalezza della grande artista, costruendo, proprio con la sequenza della registrazione di All I Could Do Was Cry, uno dei momenti più alti della propria carriera.
5 — Crying, Waiting, Hoping – Buddy Holly
Un casuale ascolto, dalla radio di un caffè di Oakland, della versione dei Beatles di Crying, Waiting, Hoping di Buddy Holly, è il pretesto per un’analisi di ciò che rappresenta, ancora oggi, il passaggio di questo astro centrale eppure trasversalmente periferico, nel cielo del rock.
Capace di costruire i propri brani – dice Greil Marcus – intorno a silenzi, pause, voce strozzata all’improvviso, mentre Elvis sembra non poter mai essere sicuro della propria arroganza, Holly si gode il gusto postumo del rappresentare la sicurezza del dubitare, avendo raggiunto, con la propria produzione, una forma di equilibrio artistico unico, attraverso una sincerità e una spensieratezza adolescenziali in grado di consacrarlo senza far sembrare la sua produzione disperatamente inopportuna.
6 — Money (That’s What I Want) – Barrett Strong
Per una specie di magia premeditata e poi ben riuscita, fu una canzone sul denaro come Money di Barrett Strong a confermare per prima le potenzialità, il successo e l’importanza storica della Motown Records.
Di questo pezzo conosciamo cover di Beatles, Rolling Stones, The Doors e molti altri, come si confà a tanto di ciò che nacque dalla chitarra di Ray Charles. La sua disarmante semplicità è insieme cifra di un successo assoluto e chiave di una precisa concezione della canzone rock: qualcosa che rifugge verità e bellezza e che intende, in primis, essere bene monetizzabile. Una profezia, insomma, o una prima presa di coscienza del futuro della canzone e della curva nel pop.
7 — Money Changes Everything – The Brains
Soldi, soldi, soldi, ma stavolta in un’altra prospettiva, quella di una canzone d’amore struggente. Inciso dai The Brains nel 1978, questo brano dal tiro già 80s diventa famoso proprio negli anni ‘80 grazie a una cover di Cindy Lauper che canta le gesta di una ragazza che, dopo aver giurato amore eterno al proprio fidanzato decide di voltargli le spalle per un tipo semplicemente più ricco.
La prospettiva yuppie è piuttosto inedita nella storia della lovesong e, unitamente a un espresso potenziale pop e insieme a-la-Bruce Springsteen (dove il peso della differenza di classe ha dato vita a masterpiece come I’m On Fire), riesce a conferire al brano un ruolo precisamente legato al proprio tempo, facendone insomma qualcosa di molto contemporaneo con questo ritratto di donna “Io narrante” non vittima ma vendicatrice e denaro che si porta via l’amore.
8 — This Magic Moment – The Drifters
Registrato da Ben E. King e dai The Drifters e riproposto da Marvin Gaye senza successo, è il brano più noto del compositore Doc Pomus, cantante blues e, come dice Marcus, un ebreo in stampelle che negli anni 40 si esibiva nei locali di Brooklyn con la poliomelite contratta a sei anni.
Autore di evergreen destinati a incidersi in alcuni dei 45 giri di maggior successo della storia del rock’n’roll Pomus è autore, tra gli altri, di quella pazza hit che è Viva Las Vegas di Elvis Presley.
Considerato il nodo accorato di un’industria musicale che perde colpi e scrupoli, donnaiolo sulla sedia a rotelle con un sigaro perennemente appeso alle labbra, Doc era uno che, prima di tutto, ci metteva l’ardore, il sangue. E si sente.
This Magic Moment, ci sottolinea Marcus, è un pezzo medio se interpretato senza cuore, sentendo anche solo poco meno intensamente del loro autore versi come
«Sweeter than wine
Softer than the summer night
Everything I want I have
Whenever I hold you tight»
ma è un brano gigantesco se interpretato come nella versione dei The Drifters con un mood, insomma, languido, capace di alienare qualsiasi competitor nelle stazioni radio e di dettare la linea commerciale per le composizioni di genere.
Usato, nella versione gelida e quindi inversamente intensa di Lou Reed nel film Strade Perdute di David Lynch è un classico senza esserlo nella vulgata. Da riscoprire.
9 — Guitar Drag – Christian Marclay
Prendi una chitarra elettrica, legala a una fune e trascinala, stando a bordo di un’auto, una notte, lungo una strada di Sant’Antonio, in Texas. Sembra che questo non c’entri nulla col rock ma Marcus sa bene che non è vero e che invece in questo esperimento di Marclay si annida non solo uno spirito profondamente r’n’r, ma la capacità di questa musica di elargire spregiudicatezza al dolore. Così, questa chitarra trascinata che simboleggia il corpo di James Bird Jr., ucciso da un gruppo di bianchi razzisti in Texas nel 1998 e trascinato sull’asfalto proprio come questo strumento, si ritrova a diventare l’emblema di un potere aureo, angelicato, capace di distruggere totalmente il male e di elevare a musica anche una forma di orrenda tortura. L’esperimento riesce appieno, visto che stare a guardare questa chitarra che striscia feroce sulla terra e ascoltarne il suono dolente e sbucciato è una tortura per tutti noi.
10 — To Know Him is to Love Him – Teddy Bears
C’è un nome e un solo nome, in questo volume, davvero istituzionale, cioè profondamente legato alle trame evolutive del rock e quindi in grado di rappresentare un tassello che diremmo oggettivo all’interno di una storicizzazione del genere: Phil Spector.
Marcus recupera questo classico dei Teddy Bears, trio dalla vita artistica brevissima, fondato da Spector con un paio di compagni di scuola, a fine anni Cinquanta.
Ma, come è chiaro a questo punto della disamina, non è al passato che Marcus ama fermarsi e così, al centro del racconto, qui, non sta la versione originale del brano, più spensierata e se vogliamo leggera ma l’esecuzione minimale di Amy Winehouse che ne fece una cover scheletrica nel 2006, mettendo ugualmente in luce, contemporaneamente, la scrittura di una canzone d’amore intima e morbidissima e la propria voce, esaltante, blues e jazz, ridotta all’osso ad accompagnare un’acustica, capace di miracoli che solo il black conosce, modulandosi senza sforzi ma anzi, ci dice Greil Marcus, concentrandosi sulla parola, sul testo, dando pieno peso a ciò che nel discorso racchiude il senso di tremore e immediatezza amorosa che Spector e i suoi volevano offrirci.