Non andarsene dalla provincia

Illustrazione di Marcello Crescenzi

Quando viaggiavamo insieme in auto, mio nonno teneva sempre pronta sulle labbra questa frase: “Dove vanno tutti? Perché corrono? Non sanno che al prossimo semaforo ci ritroveremo?”. Da ragazzina non capivo queste parole di cui mi limitavo a cogliere l’elemento più logico ma delle quali non comprendevo la stratificazione perfetta e profondissima legata alla terra, la nostra terra che stavamo attraversando e di cui lui sarebbe stato per sempre il mio primo e più elegante Virgilio.

Quello che voleva dire, con la sua impazienza modulata in modo calmissimo e piegata dunque a una forma personalissima di tenerezza per le ansie del prossimo, è che le strade da queste parti sono molto strette e che superare è uno stupido gioco di incastri pericoloso, nella maggior parte dei casi addirittura impossibile se si vuole evitare un frontale certo in uno dei percorsi follemente a doppio senso di questa provincia della Lombardia del sud. La colonna automobilistica, rarefatta nelle nebbie e schiacciata dall’afa, è dunque una faccenda inevitabile: tanto vale allora portare pazienza e andare piano piano.

Realizzo tutto questo come in una tardiva illuminazione improvvisa in una fase della mia vita in cui anche io, ormai adulta, mi ritrovo a osservare senza tumulto e con una calma nuova e consapevole, questa mia terra d’origine. In un sabato pomeriggio di aprile, uno di quei giorni che si distaccano in modo prepotente dall’andazzo meteorologico della stagione, ripercorro la SP35 (detta anche Statale dei Giovi) nel tratto che da Pavia conduce in Oltrepo, tagliando il bivio che ci porterebbe invece al centro della Lomellina, che dell’Oltrepo è, in questa provincia, il contraltare perfetto. Come sempre mi trovo al posto del passeggero, ma ora non c’è più mio nonno alla guida. Contare il numero di volte in cui ho percorso queste strade non è possibile e mi rendo conto oggi – in questa giornata dal cielo insicuro eppure seduttivo di nuvole bianche pannose e morbidissime, spazi di nero spaventoso e piccole lastre di blu che si lasciano intravedere – che questa Strada Provinciale è lo specchio fisico e tangibile della strada intrecciata del mio dna, il luogo in cui sono state incise da sempre le mie attenzioni, i miei gusti e persino qualche futura ossessione.

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La SP35 anzitutto taglia due fiumi: il Ticino, che attraversa Pavia, la mia città e uno degli ideali punti di partenza/arrivo di questo piccolo viaggio; e il Po, che invece – poco più avanti, alla località Bottarone nei pressi del paese dal nome più Alice in Wonderland dell’intera provincia pavese, e cioè Bastida Pancarana – definisce da sé con precisione cosa è e cosa non è Oltrepo.

Tra il Ticino e il Po c’è un tratto di Provinciale che è una piccola e matta Las Vegas, una versione insomma poverissima e italianissima di fluorescenze di insegne luminose sparate la sera verso il cielo e capannoni adibiti a negozi all’ingrosso che scottano sotto il sole steso sullo stradone che ci passa in mezzo, proprio come se si fossero accomodate su un angolo di California. Tra pompe di benzina e un numero indefinibile di concessionarie automobilistiche ci si imbatte in spazi davvero esotici, come il gigantesco Spaccio Pannolini e un centro commerciale dedicato unicamente all’abbigliamento dal nome ridicolo, Full Moda, che se ne sta lì da decenni, fermo, con il suo enorme parcheggio quasi sempre vuoto a fare da specchio perfetto delle curve alte e basse dell’economia italiana – a volte sul punto di chiudere, altre centro cardine dello shopping dei pavesi di ogni età nei sabati d’inverno. Lì nel 1997 ci si comprava le 883, quelle scarpe tanto di moda e tanto brutte che non abbiamo mai saputo quanto fossero connesse realmente al gruppo italiano omonimo che, guarda caso, era anche il nostro orgoglio locale.

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Sulla Las Vegas pavese sono sorti negli ultimi anni enormi ristoranti giapponesi “all you can eat” e hamburgerie con le luci al neon sparate fino all’ora di chiusura. Noto che in questi posti è tutto più grande di quanto dovrebbe essere secondo minime regole di buon senso: gli spazi sono così vasti che risulta impossibile trovare pieni questi ristoranti, e anche la dimensione delle portate sembra adeguarsi a questo status americano della gestione delle quantità. Immagino dunque che anche il nuovissimo posto in cui servono kebab, proprio lì, affacciato sulla provinciale, sia uno dei più grandi kebabbari di tutta la nazione.

Non mi domando, insomma, a cosa serva un centro commerciale in cui noti marchi di retail di elettronica, di svendita di prodotti per la casa o di discount per tutta la famiglia e per tutte le case di studenti si trovano tutti lì assiepati insieme in spazi similmente mortiferi; né mi domando il perché di uno spaccio, questa volta di dolciumi, quasi in mezzo allo stradone – spaccio nel quale mio nonno, golosissimo, amava fermarsi per comprare sfoglie dolci che oggi sono la mia personale madeleine. Non mi chiedo nemmeno abbastanza di frequente, a dire il vero, che fine abbia fatto il negozio di articoli sportivi in cui compravo le mie tute Adidas per fare ginnastica a scuola, le gonnelline Sergio Tacchini per il tennis estivo, il mio primo paio di Stan Smith. Non riesco però a smettere di domandarmi come diavolo sia possibile che questi ristoranti perduti fuori dal centro cittadino possano essere tanto inutilmente grandi, vuoti, poco rassicuranti con questa loro dimensione straniante e priva di qualsiasi elemento confortante e caldo, all’infuori – e neppure sempre – dei pasti che servono. Non stupisce che insomma, a volte, qualcuno preferisca rintanarsi nell’ancor più plastica risotteria Scotti – ché il riso Scotti lo facciamo noi, eh – tutta color bianco ospedale, situata al pianoterra del cinema di riferimento di questa nostra matta California padana.

Dopo Las Vegas la strada verso il Po si fa più stretta; era proprio lì che mio nonno invocava la calma nel procedere, lì dove la strada costringe forzatamente all’attesa e spinge lo sguardo fuori in modo ancora più prepotente. Venditori di vasellame e statue da giardino lasciano il posto a esclusive catene locali di pizzerie, come la mitica Due forni 4 che fa una pizza ottima nonostante il nome numericamente confuso. La mia ultima attrazione, da quelle parti, non è ovviamente il punto vendita Casa Mercato, né un ristorante di pesce (buonissimo nella vulgata locale, su cui nessuno scommetterebbe nulla e che serve abitualmente i piatti con la radio accesa a tutto volume), bensì un piccolo negozio di piscine, con una vasca esemplificativa della bellezza dei risultati venduti, situata nel piccolo spazio verde costruito ad hoc a ridosso del cancello del negozio, praticamente sul ciglio della SP35.

Tuttavia è il complesso 7 laghi a dare la svolta ideale al paesaggio della Provinciale. I 7 laghi – dove mio nonno portava me e mia nonna a mangiare la pizza quando d’estate, subito alla fine della scuola, mi trasferivo da loro prima per un mese e mezzo – è una pizzeria ma anche un motel e un circuito internazionale per corse di go kart. In questa provincia non esiste un posto più strabiliante e insensato per i suoi troppi significati: se chiudo gli occhi e penso alla pazzia della mia terra penso ai 7 laghi, questa campagna immersa in un numero di laghi invero imprecisato – nessuno ha mai capito se siano davvero sette – in cui potenzialmente insieme appassionati e professionisti del go kart si allenano e gareggiano, uomini e donne si appartano a ore in un motel su uno dei larghi artificiali a due passi dal fiume più grande d’Italia, uomini di ogni età pescano per divertimento e un nonno e una nonna portano la loro nipotina a mangiare una pizza margherita oggi, come in un’estate del 1993.

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Il Po si attraversa su un ponte incredibilmente piccolo considerando l’ideale magnificenza di un fiume tanto solenne, largo e possente, a volte così in secca da spaventarti per quanto immagineresti letale il tonfo lì sotto, su una terra paludosa e immobile, così perfettamente padana da risultare ancora più pericolosa di quei mulinelli, vortici e correnti che mietono ancora, ogni anno, le loro vittime. Meglio allora evitare di guardare troppo, fare anzi pace con il guardrail e dedicarsi allo spettacolo celeste di cui si può godere sospesi a bordo dell’auto sopra questa distesa d’acqua.

Dogana ufficiosa del mio Oltrepo, la carrozzeria Razza aveva una volta un’insegna rossa luminosa che faceva quasi da punto cardinale utile a chi, nella rotonda che smista i tragitti della zona, doveva capire dove andare. Grazie a quel rosso vibrante nel vuoto della pianura, io stessa ho imparato a calibrare le distanze tra la città e le colline che intanto, verso sud, iniziano a mostrarsi all’orizzonte. Hanno recentemente chiuso la carrozzeria e ora resta solo il segno chiaro di quella magica scritta che, nei decenni, ha lasciato il marchio della propria presenza sulla facciata del capannone e quindi sembra, a tutti gli effetti, ancora presente. A non aver chiuso, invece, è il Tabù music hall, da cinquant’anni luogo di culto del pavese, capace di attrarre a sé attenzioni e macchinate del sabato sera persino dalla Liguria e dall’Emilia.

Al Tabù, nei primi anni Settanta, prima del riflusso e delle discoteche, prima di qualsiasi immaginabile Febbre del sabato sera, i ragazzini, la domenica pomeriggio, andavano a ballare i lenti e gli shake, ci suonavano ogni sera gruppi rock locali diversi e il sabato si godevano gli albori di un grande del rock non ancora famoso: il Battiato di Pollution, la PFM, Le Orme. Gli anni Ottanta hanno lasciato il piccolo Tabù a sopravvivere in un angolo, mordicchiato dal successo delle grandi discoteche a mille sale, mille luci e mille danze. Oggi, questo posto tanto piccolo ai bordi della SP35, con un parcheggio che quando è senza auto fa paura per il vuoto più profondo che riesce a disegnare tra fiori e alberi, è meta degli amanti del liscio, delle danze cubane e della Kizomba, un ballo nato in Angola alla fine degli anni Settanta e oggi di culto anche qui, danza con la quale ogni coppia può misurarsi tutta la notte per soli 16 euro.

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Le strade intorno sono strette, spesso curve, spazi ampi di Provinciale si danno il cambio con piccoli tornanti imprevisti; è lì, in quella calma assoluta, che ho visto comparire per la prima volta nella mia vita mazzi di fiori ai bordi delle carreggiate, scoprendone la fatalità. Lì dove inizia a tutti gli effetti l’Oltrepo e la SP35 lascia spazio effettivo alle proprie mete – meravigliosi ristoranti in collina con affacci sulle vallate, centri commerciali con multisala e almeno cinquanta negozi, una città di provincia dalla rigogliosa antica economia oggi in decadenza, delle cui meraviglie restano solo insegne di negozi oggi rilevati perlopiù da commercianti asiatici – lì, esattamente lì, per me finisce la Provincia, lì dove le stradine diventano pericolose, salgono e diventano argini tra paesini che raccontano intere porzioni di adolescenze su un Ciao o in fila nei piccoli bar dei bevitori ossessivi per comprare qualche caramella fosforescente o qualche bubble gum da sparare fuori come dentifricio, lì dove la farmacia sta in una stanza dentro il Comune e apre solo tre volte a settimana per pochissime ore, dove la pesca di beneficenza è un gioco magico esattamente come una mazurka danzata con sapienza alla sagra del 12 di agosto.

Mi sono a lungo domandata dove iniziasse questa provincia che io ho così emotivamente circoscritto a una trentina di chilometri perduti nelle insegne e nel verde, nei negozi e nei crateri di campi e alture in lontananza. Solo da adulta ho trovato una risposta e non era quella che avrei pensato. Il punto di partenza di questa mia provincia, infatti, non è affatto la mia città, quella da cui parto e alla quale faccio ritorno, ma un indefinito luogo che segno all’altezza di una rotonda nei pressi della decadente e plumbea Binasco, una rotonda circondata da campi che fino agli anni Novanta fecero da mare selvaggio adibito suo malgrado allo spaccio e agli amanti del buco. Lì dove ora campeggia un McDonald’s utile come punto cardinale quanto la Carrozzeria Razza, sta l’esatto punto di incontro tra la mia terra d’origine e quella che per molti di noi è la terra del sogno, la grande speranza a 40km, croce e delizia del quotidiano affanno e dal desiderio di immersione nel mondo, nella vita, nell’altro da sé: Milano, che molti da qui desiderano, che tanti raggiungono dopo anni di allenamento come una meta agognata, un premio, una medaglia.

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La porzione di SP35 che svicola dalla provincia per raggiungere la metropoli è la stessa arteria che attraversava Las Vegas ma ormai se l’è lasciata alla spalle, si dibatte piuttosto tra ben più anonimi capannoni, vaghe stelle notturne che lavorano in reggicalze ai bordi della strada, qualche night club dal nome all’anice come Club Pastis e qualche ristorante pizzeria che nel tempo ha lasciato spazio a rosticcerie cinesi. Milano sempre più vicina fa sfilare, in lontananza, ai lati della strada, le vele di Gratosoglio e si fa lentamente più altera, disdegnosa, progressivamente manzoniana, convinta di sé, sedicente alternativa, poi bocconiana, bellissima, giovane, spigolosa, appariscente eppure così naturale.

Eppure, mi domando percorrendo ambedue i lati di questa strada Provinciale tutta attaccata alle due città che muovono la mia vita e mi governano, perché ci perdiamo nel sogno della provincia americana, delle sue storie minime di piccole case disperate di famiglie in disperazione, innamorati esili ai bordi delle strade, e invece tanto amiamo rifuggire la presunta condanna di una vita in provincia? Per quale ragione il mondo vero dovrebbe coincidere con una fuga eterna in città e non in un misto di continue scappatelle che ci porteranno infinitamente a rintanarci nella nostra dolce e dolente vita per nulla marginale ai margini di una strada sterrata?

Come un John Cheever senza talento qualcuno resiste qui, nella speranza che il medio e il piccolo non siano curve né destini per la vita ma piuttosto prospettive, racconti possibili, luoghi da cui eventualmente scappare per un whiskey nella metropoli, con qualcuno che ci racconti qualcosa di nuovo, qualche Saul Bellow senza talento.