Teste mozze, cape e capocce, decapitazioni, ghigliottine, teschi, esecuzioni, crani illustri e altre delizie.
Nick Berg, ingegnere statunitense, venne decapitato in Iraq nei primi giorni di maggio del 2004 dopo essere stato rapito il 9 aprile dello stesso anno. La sua esecuzione, filmata in ogni dettaglio, fu resa disponibile dalla Reuters trasformando Berg nella prima video-vittima della guerra in Iraq. Un frammento di 30 secondi della decapitazione di Daniel Pearl, cronista del Wall Street Journal rapito in Pakistan il primo febbraio 2002, fu trasmesso all’epoca da un’emittente soltanto, la CBS: solo due anni dopo, dunque, l’esecuzione di Berg finì potenzialmente davanti agli occhi di ogni cittadino degli USA, trasmessa da tutte le tv americane con la cura di mandare in stop la registrazione a pochissimi secondi dell’esecuzione vera e propria, nella consapevolezza di indirizzare il proprio pubblico verso il web a godersi l’intera registrazione video.
Il 13 maggio dello stesso anno le ricerche più popolari di Google, Yahoo e Lycos corrispondevano a differenti combinazioni di queste quattro parole: “nick”, “berg”, “decapitazione”, “video”. Alla fine dell’anno si contarono ufficialmente 64 decapitazioni di cui 28 filmate e messe online da diversi gruppi di estremisti islamici in Iraq. Due esempi questi, i primi in ordine cronologico, apripista di un lungo e inesaurito dibattito sull’etica professionale del giornalista occidentale (diffondere per far conoscere o censurare in nome di una morale umana più alta e insieme elementare?), che rappresentano l’ultima esperienza di realizzazione e insieme di trasmissione collettiva, a un livello altamente performativo, della decapitazione.Bernardino Luini, Salomé con la testa del Battista, 1527.
La decapitazione in video come vera e propria produzione televisiva è solo l’ultimo, nel tempo della Storia, tra i molti esempi di natura, realizzazione, espressione e condivisione delle “teste decollanti” di cui l’antropologa Frances Larson scrive nel suo lungo saggio Teste Mozze. Storie di decapitazioni, reliquie, trofei, souvenir e crani illustri (UTET), uscito in Italia lo scorso 8 marzo.
Larson scrive una storia della decapitazione da una prospettiva rigorosa, che parte dalla posizione delle teste, dei crani che cataloga, seguendone la genesi di oggetti che furono, poco o molto tempo fa, snodi centrali di corpi in vita, dividendoli in teste rimpicciolite, teste-trofeo, teste giustiziate, teste incorniciate, teste miracolose, teste d’osso, teste dissezionate e teste viventi.
L’incontro con una testa mozza, in qualsiasi forma essa si trovi e per qualunque motivo essa esista come tale, è l’incontro che l’uomo vivo ha con il sé che sarà, con il proprio ineluttabile destino.
La curiosità che si prova per le teste decollanti si articola diversamente ed essenzialmente in due modi. Da un lato l’attenzione morbosa per l’azione in sé, quella che spinse centinaia di persone a radunarsi a Versailles, nel 1939, intorno alla ghigliottina che avrebbe giustiziato il criminale tedesco Eugen Weidmann; la stessa curiosità che spinse le persone a salire sui tetti delle case per non perdersi la scena e che portò i fotografi a ritrarre ogni istante di quel rituale e i rotocalchi a pubblicare quelle stesse foto poche ore dopo; la stessa “attenzione”, infine, a cui dobbiamo questa fedele registrazione video dell’evento. E proprio questa esecuzione fu l’ultima permessa dalla legge francese, visto che dopo appena una settimana i legislatori vollero arginare il senso di “spettacolo” della pena di morte.
Tale forma di curiosità, però, è dimostrato, si estende in qualche modo oltre la forma di morte inflitta al giustiziato e quindi anche oltre la decapitazione: non è un caso infatti che nel maggio del 2001, quando con iniezione letale morì Timothy McVeigh in Indiana, nel paese di Terre Haute, non furono presenti solo giornalisti, inviati e manifestanti ma pure ambulanti, venditori di cibo e merchandise. La curiosità che si trasforma in atto speculativo e spettacolarizzazione assoluta non si limita quindi a decapitazioni e teste volanti ma sembra piuttosto una naturale degenerazione – parzialmente ascrivibile alle degenerazioni proprie del capitalismo – dell’irresistibile desiderio umano di conoscere, foss’anche coprendosi un po’ gli occhi, l’istante esatto che trasforma un corpo vivo in uno morto.Andrea Solari, Salomé riceve la testa di Giovanni Battista.
Cos’hanno in più, dunque, queste teste? Semplice, contengono volti, visi, il maggior numero di muscoli atti all’espressione presenti nel nostro corpo. La testa umana è una bellissima torre di controllo fatta di 32 denti, 20 ossa e un cervello da cui passano, attraverso svariati organi sensoriali come occhi, lingua, naso e orecchie, ben quattro tra i nostri cinque sensi: vista, gusto, olfatto e udito. Una cosa poi, soprattutto, rende la testa interessante, affascinante e ricca di potere intrinseco nonchè, come ci dice Larson, in grado di ispirare all’uomo l’istinto a tagliarla: la testa è l’anello che connette senza sosta la nostra interiorità con il mondo esterno, e lo fa in modo più intenso di qualsiasi altra parte del corpo.
L’incontro con una testa mozza, dunque, in qualsiasi forma essa si trovi e per qualunque motivo essa esista come tale, è l’incontro che l’uomo vivo ha con il sé che sarà, con il proprio ineluttabile destino. Incontro suggellato nello scambio espressivo facciale che vita e morte si offrono l’un l’altra: il vivente, in modo del tutto innato, risponde istintivamente all’espressione facciale altrui, come in una sorta di reazione a catena, di riflesso incondizionato. Una testa separata, secondo Larson, è in grado di scompaginare le categorie umane più basilari, poiché è insieme cosa e persona, è vicinanza profonda ma pure profonda estraneità.
Nell’opera shakespeariana, per esempio, è nelle mani di Amleto che Yorick, il teschio, viene riportato in vita, è lì che smette di essere un osso, quando Amleto si confronta con l’idea di morte.Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne.
Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne.
Di storie di teste mozze è pieno il mondo e molto spesso l’esistenza di una testa osservabile dall’uomo vivo, è il risultato di una domanda che, come sempre, genera offerta. Si tratta ad esempio del caso delle teste mozze rimpicciolite che hanno ispirato la nascita di questo volume. Conservate nelle teche dedicate al “Trattamento dei nemici morti” del Pitt River Museum di Oxford, le piccole teste hanno un centinaio di anni, furono prodotte dagli Shuar, gli abitanti della foresta tropicale delle Ande. Esse venivano svuotate del cranio, della carne e dei muscoli e riempite di sassi e sabbia per poi venire cotte diventando poco più grandi di un pugno. E che ci fanno nelle teche di un museo inglese? Gli Shuar volevano i nostri coltelli e le nostre armi da fuoco e utilizzavano come merce di scambio, progressivamente, sempre più testoline mozze, in grado di generare nel visitatore occidentale l’idea di uno stile di vita puro e primordiale. Il loro rito puntava allo svuotamento della forza del nemico, perlopiù maschio, al fine di impossessarsene. Gli shuar, insomma, consideravano preziosissimo ciò che una testa conteneva, una sorta di tesoro inestimabile che conferiva alla testa stessa un valore in grado di superare nettamente quello di semplice trofeo. Tuttavia, una volta svuotata e privata di quella sua forza tanto dirompente, essa, fatta piccolina, non era più qualcosa di interessante – ed è lì che inizia invece a farsi interessante per i colonizzatori.Caravaggio, Salomé con la testa del Battista.
Caravaggio, Salomé con la testa del Battista.
Anche le teste-trofeo sono in grado di mostrarci la fortissima necessità dell’uomo di confrontarsi con l’altro capo per fare il punto con se stesso. Larson ci racconta ad esempio il caso di un’incredibile “Foto della settimana” apparsa su LIFE nel maggio del 1944. Il soggetto era Natalie Nickerson, un’operaia di guerra di Phoenix immortalata nell’atto di scrivere al fidanzato nella marina del Pacifico ringraziandolo per il regalo appena ricevuto: il teschio trofeo di un soldato giapponese firmato da quattordici militari americani. “Questo è un giapponese buono: un giapponese morto, raccolto su una spiaggia della Nuova Guinea” scrive lui alla sua innamorata. La didascalia della rivista descrive una Natalie sorpresa dal regalo (nella foto i suoi occhi lo fissano pieni di ammirazione), che decise di chiamare il teschio Tojo, come il primo ministro giapponese dell’epoca.Damien Hirst, With Dead Head, 1991.
Damien Hirst, With Dead Head, 1991.
In tutto questo Larson non si dimentica dell’arte e della sua ricerca di confronto tra vita e morte. Un esempio principe è la fotografia che ritrae Damien Hirst con una testa mozza il cui volto risulta perfettamente riconoscibile. La fotografia fu scattata in un vero cheek to cheek tra l’artista e la testa, all’obitorio di Leeds nel 1981, quando Hirst cercava di dare una “diversa collocazione alla morte” e per farlo studiava davvero da vicino la composizione e la forza del corpo morto, abbracciava a sé cadaveri e li disegnava. Schifato, spaventato, estraneo ma desideroso di conoscere, Hirst cercava confidenza con qualcosa di diverso dal sé di oggi: il sé di domani. Nel 1991, a distanza di 10 anni, quella foto venne stampata su una tiratura limitata di lastre d’alluminio ed esposta nelle sue prime personali con il titolo With dead head.
Il rapporto tra la persona viva, con la testa sulle spalle, e quella decollata si basa su una profonda ironia: lo scambio tra i due mondi ci ridimensiona e ci può far ridere, come nella commedia dell’arte, anche delle nostre bassezze e diffetti – il cui principio, naturalmente, sta nella nostra fine.