Cantautori italiani da tutto esaurito

17 / 6 / 2014

C’è un fenomeno che resiste alla crisi della discografia e che distrugge giorno dopo giorno la propria etichetta originaria “indie” – termine che vorrebbe indicare un insieme di forme di indipendenza dalle major e dai meccanismi dello strapotere contrattuale e poi concettuale sotteso alla produzione musicale, ritagliandosi piccoli spazi di nicchia. Si tratta dei cantautori italiani, gli unici a riuscire a raccogliere oggi, come fossero un unico grande flusso espressivo che guida la nostra musica pop, un numero sempre in aumento di fan, gli unici in questo Paese da cui ancora ci si possa aspettare un tutto esaurito. In un effetto domino che vede un nome in ascesa dopo l’altro, ciò annulla di per sé ogni premessa di indipendenza.
Il cantautorato, parola costantemente messa in crisi dalla stampa di settore e dal chiacchiericcio specializzato sul web, rappresenta nell’essenza il modo in cui tradizionalmente la musica pop in lingua italiana, a partire dagli anni Cinquanta, è entrata nell’immaginario collettivo, svettando – seconda solo ai corrispondenti anglofoni – durante la contestazione e rendendosi spontaneamente vero e proprio mezzo di comunicazione a sé, di volta in volta politico, ironico o puramente narrativo, sentimentale. Oggi del cantautorato classico – quello delle origini – sembra essere rimasto poco in termini ideologici mentre molto viene inseguito negli afflati musicali, artistici ed estetici. La canzone impegnata non esiste ormai da tempo, probabilmente sepolta definitivamente con la fine della seconda scuola romana (Fabi, Gazzè, Silvestri). Tuttavia sopravvive oggi con un significato distante da quello originario: come espressione di un individualismo che si inserisce sì nella società ma ragionando sul singolo o, semmai, su nicchie e gruppi; difficilmente fa parte di un discorso politico e, quando questo sembra apparire nei sottotesti, resta comunque lontano da visioni e perduti canti partitici.
Gruppi e autori come Iosonouncane, Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica), I Cani, tendono, in modi e qualità differenti, a rappresentare questo momento sociale dell’Italia attraverso discorsi sempre più volti a raccontare disagi, pressioni, scontri intimi dell’individuo nel proprio tempo e con i propri simili, in un modo che appare sempre meno interessato a disegnare, di questo stesso tempo, un ritratto schierato. Nell’epoca in cui i partiti perdono i loro colori d’origine o nascono predicando sulla base proprio del crollo ideologico generale, la musica, ancora una volta, sta al passo, perdendo in definitiva la propria ragione partitica, abbandonata là, nei perduti anni Settanta.
Iosonouncane canta una moderna marcia su Roma rappresentandola come una Macarena figlia dei teatrini tv, Vasco Brondi disegna uno spazio di periferia italiana, un mondo di ultimi in termini più emotivi che sociali, ultimi che ascoltano rock indipendente e aspettano un giovane amore tornare dall’Erasmus. I Cani, invece, scelgono di narrare le nevrosi sottili di una classe romana privilegiata, istruita, colta, mettendo in piedi una sorta di meta-racconto sociale dove chi scrive e chi ascolta appartiene allo stesso universo raccontato. Dall’altra parte resiste, avendo sempre e comunque la meglio, la canzone d’amore, che in nomi come Dente, Colapesce, Non voglio che Clara e Alessandro Fiori porta avanti un discorso musicale ben saldato alle radici. Il loro percorso artistico abbraccia il vintage più o meno consapevolmente, di volta in volta legandosi alle ragioni di poetica e stile di Francesco De Gregori, Lucio Battisti, Rino Gaetano, Ivan Graziani; cercano l’eterno riecheggiare di Studio Uno, di Senza Rete, di Mina alla Bussola, degli arrangiamenti di Reverberi, Morricone, Martelli ma pure del rock d’oltremanica.
Il lavoro raffinatissimo di giochi di parole, enigmistica sentimentale che rifugge la rima baciata senza scappare dalle estremità necessarie del romanticismo più classico ha reso Giuseppe Peveri, Dente, un autore capace di conquistare, se non quelle più ciniche, senz’altro le penne più critiche e meno devote al genere. Dall’altra parte, il siciliano Lorenzo Urciullo, Colapesce, mette a fuoco perfettamente una canzone sentimentale completamente diversa, che guarda musicalmente all’indie americano e dipinge un immaginario amoroso più materico e più fisico.


Meno noti ma altrettanto necessari per raccontare cosa sia il cantautorato più intimista oggi ci sono l’ex Mariposa Alessandro Fiori e i bellunesi Non voglio che Clara: il primo da alcuni anni impegnato in un disegno minimale delle relazioni e delle introspezioni, i secondi avvinti a un lungo concept amoroso narrativo, diviso in tre capitoli quasi letterari e di recente tornati sulle scene con L’amore fin che dura che abbandona le storie di ieri per raccontare frammenti emotivi più eterogenei e contemporanei.