In 20.000 days on earth, il documentario uscito nel 2014, con la lucidità narrativa e lo stile tossico entrambi chiave dell’immaginario Nick Cave, veniamo condotti nella programmaticità di un’auto-archiviazione perfetta di eventi, fatti, incontri, testi compiuti, bozze, partiture, fotografie a opera dell’artista che, di tutto questo, è protagonista.
L’idea di fermare, in una fase ancora tenace della produzione artistica e della vita, i souvenir quotidiani dell’arte e della famiglia, del letto matrimoniale e dello studio di registrazione ma, soprattutto, del reale e dell’onirico – testimonia il desiderio e la volontà di scegliere per sé una forma di narrazione attiva e contemporanea che dettagli accuratamente l’esistenza, disegnandosi come lo spezzone cesellato alla perfezione, di un lungo, controllato, memoir in divenire.
Non è possibile, allora, ravvisare alcuna forma di imprevedibilità nella scelta di affidare il racconto di una quotidianità ora alterata e in qualche forma degenerata – che si accompagna a sé stessa cercando nella perseveranza dei giorni e dell’arte, il proprio motivo d’essere – a un altro documentario: One more time with feeling – diretto da Andrew Dominik e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia solo poche ore fa – in cui Nick Cave racconta la registrazione di questo Skeleton tree, ultimo nato di una famiglia discografica ricca e magica, inciso per metà dopo la morte di Arthur, uno dei due figli gemelli dell’autore, precipitato da una collina, nel luglio del 2015, dopo aver assunto LSD.